Mio caro P.,

il cielo sulle nostre teste si strappa.

L’ho visto aprirsi come una voragine che inghiotte alberi e case. Un cielo livido senza nuvole né ali. Nel cavo dell’alba la tortora che sfrangia il verde del prato non sa alzarsi più in volo.

Mio caro amico, scusami per il ritardo nella risposta alla tua precedente epistola.

Negli ultimi giorni ho solcato in lungo e in largo questo nostro fazzoletto di terra. L’ho aperta come una noce ancora avvolta nel mallo, l’ho sarchiata con la selce, a mani nude. Spesso guardavo il cielo da un orlo del finestrino e ora mi appariva mite e benevolo, ora raschiava la retina con sottili dita scure. Ad ogni crocevia a tratti mi pioveva negli occhi una scontrosa grazia, a tratti una preghiera che pareva lamento di bestia ferita.

Tenevo Rilke sul sedile di fianco e di tanto in tanto mi fermavo per domandargli un verso, un distico, un cenno che fosse di conforto al mio errare. In una radura della selva, nel fitto, mi disse: Uscirono animali di silenzio dal chiaro/del liberato bosco, da tane e da cespugli. Tra i ruderi di una rocca mi chiese: Esiste veramente il tempo, il Distruttore?/Quando, sul monte immobile, abbatterà la fortezza? Al crepuscolo, mentre la luce si fa in un lampo acqua torva, lo sentii ansimare: Respira il buio della terra,/respira e ancora alza lo sguardo! Ancora/leggera e senza volto la profondità posa/su te dall’alto.

Nel cavo del cielo stellato un coleottero tenta l’aria. Solo adesso che lo vedo puntare una scaglia di luce comprendo che la fine e l’inizio sono lì dove la sua ombra sta per cadere.

Non so dove l’abbia condotto il suo volo. Non so neanche se il mio viaggio abbia avuto una fine ed un inizio. Era Autunno? Inverno? Era una stagione che si può numerare, o tutte quante le stagioni stanno serrate in un medesimo grumo? Era al nadir la sua traiettoria? Allo zenit il mio errare? E’ terra quella che sotto i miei passi sfarina, o polvere piovuta da un cielo che si inabissa e si stacca?

La campagna che cede al tramonto ha un languore che strappa le carni a brani. Poi tutto è silenzio. E orme di ungulati che graffiano la brina. La terra conserva il suo alfabeto in una teca.

Non ho altro da dirti, mio caro. Mi pare non ci sia altro da raccontarti di questi giorni di vento. Niente altro che sia degno di nota.

Ho trovato lungo la strada che costeggia il Volturno un grande traliccio infilato nel cielo. Stavo per dimenticarmene. Davanti l’abbazia di Epifanio c’era un traliccio carico di fili, un grosso traliccio che succhiava ruggine dal cielo. Sembrava volesse bucarlo. L’ho guardato da dietro gli antichi archi di pietra sopravvissuti all’ingiuria del tempo. Per un istante ho pensato ai Franchi, ai Longobardi, ai Saraceni. Mi è apparso lo scintillio del fuoco ed ho udito il salmodiare del coro.

E’ proprio allora che ho avvertito un tonfo nel petto e veduto il cielo strapparsi.

Ti abbraccio

Valentino

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