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La recita in silenzio. Un giorno, dietro le quinte, al Teatro Savoia (di Pasquale Di Bello)

Fuori, all’ingresso, ci sono i rumori del mondo ma all’interno del Teatro Savoia, vuoto, c’è un’atmosfera rarefatta, metafisica. Sembra di essere dentro un film di Fellini. Tutto intorno il silenzio, la platea deserta e, sotto le scarpe, solo il cigolio delle tavole di quel palcoscenico calpestato da compagnie, artisti, musicisti che tante volte hanno acceso i cuori, liberato le emozioni e fatto scattare un battimani inarrestabile. La sala viva, piena, attenta: questo è quello che tutti conoscono, quello che tutti di solito vedono. Ma dietro al Teatro che tutti ammirano c’è un altro Teatro, un’altra scena non vista, come se fosse un tappeto del quale tutti godono per il bel disegno sul recto senza vedere l’intreccio di nodi, fili, trame, che si nascondono sul verso di quella magnifica visione. Entro al Savoia di Campobasso un lunedì mattina, dall’ingresso principale. Attraverso il foyer e oltrepasso la soglia che porta alla platea. Davanti a me c’è una macchia ordinata di colore grigio-azzurro, file di velluto una dietro l’altra. Non c’è nessuno ma me pare di sentire lo scatto di un registratore a cassette, quello dei vecchi tempi, che sono sempre d’oro davanti a quelli nuovi. È come se un meccanismo cominciasse a girare e nella sala vuota riecheggiasse il fraseggio al piano di “The Load” di Jackson Browne, la canzone che descrive la vita on the road di quelli che preparano uno spettacolo: silenziosi, dietro le quinte, lontano dai riflettori.

Luciano, Boris e Giancarlo, le tre anime nascoste del Savoia, quelle che incontro al mio ingresso, hanno negli occhi l’aria da roadies, come dicono gli americani quando parlano dello staff che segue musicisti e band lungo la strada. Roadies, da road, appunto: strada. Luciano, Boris e Giancarlo i loro chilometri, la loro strada, da anni la percorrono nei meandri più segreti del Savoia, dai sotterranei dove sono nascosti camerini, palchi mobili, impianti di sicurezza, riserve d’acqua, motori e pistoni, sino alle altezze vertiginose dalle quali scendono quinte, corde, cavi, luci e ogni cosa che serve alla realizzazione di uno spettacolo. È molto di più di un lavoro quello che svolgono, nei loro occhi c’è non solo l’espressione soddisfatta di chi ama fare bene il proprio mestiere ma, soprattutto, quella scintilla di luce che si chiama passione. Mentre giro tra le poltrone, accompagnato da Luciano, Giancarlo è seduto su un piccolo sgabello, lungo un corridoio laterale del teatro, intento a ridare smalto e colore a una formella consumata dal tempo, una delle tante decorazioni di cui il teatro è zeppo. È un lavoro artigianale, di cesello, come tutti quelli che vengono fatti in teatro quando le porte sono chiuse. “Ci siamo costruiti il calco per riprodurre esattamente le formelle rotte”, mi dice Luciano con l’aria di chi ha salvato “una vita”, perché questi pezzi di teatro sono irriproducibili se non dalle mani di chi, letteralmente, li accarezza ogni giorno come fossero figli. Dalla platea cominciamo a salire, verso il cielo del teatro, là dove la vertigine ti fa vacillare. Passiamo davanti agli ingressi numerati dei palchi, sino ad arrivare all’ultima fila, a strapiombo sul palcoscenico. Da una parte un attrezzo in tubi di ferro, è quello che serve ad arrampicarsi ancora più su ed a sporgersi nel vuoto per cambiare le lampadine quasi attaccate alla volta. Lo si fa sempre in due, con uno che interviene e l’altro che fa da contrappeso. Anche cambiare una lampadina, a teatro, è compiere un’operazione delicata che richiede la massima attenzione. In quel mondo in penombra, dietro ai palchi, si aprono spazi improvvisi. Un ufficio di rappresentanza, dove si ricevono artisti e manager e dove vengono conservate gelosamente le pellicole di tutti gli spettacoli, una regia, una sala di controllo, un sistema rodato che consente di controllare luci, suoni, proiezioni, meccanismi che si muovono in diretta sul palcoscenico. Nulla è lasciato all’improvvisazione, ogni singolo gesto, movimento, oserei dire ogni singolo respiro è parte di un copione segreto che questi uomini conoscono a memoria. C’è un’arte anche nello stendere le corde e legarle. A quattordici metri d’altezza Boris, il macchinista, cammina sui listelli di legno come fosse uno sciamano che danza davanti al fuoco, sicuro, senza esitazione, eppure dai listelli alternati a spazi vuoti si avverte l’altezza vertiginosa che ti separa dal palcoscenico. Insieme alla Piccionaia, ormai smantellata, quella che ospitava il popolino durante gli spettacoli, il posto più pericoloso di un teatro, c’è la sala delle funi, come mi viene di chiamarla, è il luogo più alto del teatro. Oltre c’è solo il tetto, dove stanno, costruiti all’esterno, altri sistemi che controllano le caldaie e che consento una via di fuga in caso di pericolo. Dal tetto si odono i rumori di fondo della città, attutiti, lontani. Il Teatro oltre il Teatro è un mondo che affascina, così come gli ultimi, irriducibili attori che lo popolano, una specie purtroppo in via di estinzione. Li guardo bene questi tre e mi sembrano tre apache dentro una riserva. Come si diventa elettricista teatrale o macchinista? Chi lo fa ora lo ha imparato on the road, seguendo da ragazzo compagnie, artisti, gruppi musicali, dando spazio ad una vera e propria vocazione, ma quando Luciano, Boris e Giancarlo avranno restituito le chiavi del teatro, quando andranno via in forza di quella condanna che porta il nome di “pensione”, chi verrà dopo di loro? Nessuno, purtroppo. Al momento nessuno. Non esiste una scuola per diventare tecnico di teatro, esistono solo la vocazione a farlo e la passione. Preparare qualche giovane a questo lavoro sarebbe opera altamente meritoria, qualcuno che tenga il teatro aperto, le corde tese, le luci accese, le formelle restaurate, lo spirito delle Muse vivo. Il Teatro oltre il Teatro ci sta salutando, ci sta dicendo addio e noi nemmeno ce ne stiamo accorgendo. Ricordiamocelo quando ci alziamo in piedi in platea e nei palchi e battiamo le mani all’artista, alla compagnia, al musicista o gruppo di turno. Quando le luci si spengo, quando tutto si fa di nuovo silenzio, quando il battimani è finito, mettiamoci di nuovo in piedi e facciamo un applauso a tutti coloro che lavorano nell’anonimato più totale, qualcuno che nessuno vede ma senza cui il teatro non esisterebbe.

Luciano come fosse Virgilio mi accompagna sino alla fine del mio viaggio, sulla porta arrivano a salutarmi anche Boris e Giancarlo. Un minuto prima mi hanno presentato una signora che da tempo immemorabile si preoccupa di tenere pulito il teatro. “Ho lavorato come sarta teatrale per molti anni e con attori e compagnie importanti”, mi dice con la fierezza di chi fa ancora parte di quel mondo incantato. Anche lei a teatro, al Savoia, ha il suo spazio riservato, anche lei è parte di un rito e di una recita ulteriore che nessuno vede, che non sta scritta sopra nessun copione e che fa del Teatro non solo una forma d’arte ma anche un pezzo di cuore.  La porta del Savoia si richiude, io riprendo la mia strada, i miei compagni di un viaggio segreto rientrano nella sala vuota. La loro recita continua in silenzio, sono allo stesso tempo attori e spettatori che vanno avanti un giorno dopo l’altro. Sento nuovamente il tasto del registratore a cassette che scatta, è sempre Jackson Browne, ma è cambiata la canzone: adesso si chiama Running On Empty, e mi sembra quella giusta. Lassù in alto, sui listelli, all’ultimo piano del teatro, c’è qualcuno che “corre nel vuoto” e mi viene da chiedere sino a quando lo farà.

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