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#iorestoacasa: memorie familiari della “Spagnola” di un secolo fa (di Simonetta Tassinari)

Più o meno una volta ogni secolo, ahimè (e quando va bene, perché in passato erano assai più frequenti) sembra che la natura ci faccia improvvisamente ricordare quanto inermi siamo, quanto fragili, quanto esposti alla sua potenza. La “Spagnola” esattamente cent’anni fa, la pandemia di colera in Europa tra il 1830 e il 1831 (che, tra i tanti, si portò via Hegel), le ondate epidemiche e pandemiche di vaiolo del Settecento, senza neppure soffermarsi sul peggior disastro accaduto in età storica, la “Morte nera” a cavallo del 1348 (quella, tanto per intenderci, del “Decameron”), hanno sconvolto profondamente gli equilibri precedenti e hanno costretto l’umanità a riconsiderare un po’ l’immagine lusinghiera che aveva di se stessa e a riconoscere, con umiltà- come scrive Jacques Maritain- che “siamo fuscelli di paglia in cui entra il cielo”. L’attuale Covid 19 (ma su, confessiamolo, ognuno di noi non credeva che qualcosa del genere potesse accadere nella nostra epoca, così tecnologica e avanzata) ci dimostra, ancora una volta, di quanto illusoria sia la pretesa baconiana di dominare e di piegare la natura. Peraltro l’interrompere i contatti e l’autoisolamento sono, empiricamente- per forza di cose- i rimedi più efficaci per spezzare la catena dei contagi, da sempre, e in famiglia io ho avuto una testimone affidabile, ciarliera e assai ricca di particolari per quel che riguarda la “Spagnola”: mia nonna. Nel 1920 la nonna era molto giovane, ma quei lunghissimi e tragici mesi le si erano stampati indelebilmente nella memoria. Ne parlava abbastanza spesso; io e i miei fratelli ne eravamo impressionati, impauriti e quasi affascinati; le prime notizie, le prime vittime nel suo paese, le campane che suonavano ininterrottamente finché non erano state tacitate per regio decreto; le tanti compagne di scuola scomparse, i parenti che non avrebbe rivisto più, la gente impazzita dal terrore. Tuttavia la parte del racconto che io e i miei fratelli preferivamo (trattandosi di un lieto fine) era come lei, i suoi genitori e i suoi numerosi fratelli (dieci, come si usava allora nelle famiglie patriarcali) ce l’avessero fatta (peraltro, ci chiedevamo: se invece la nonna non ce l’avesse fatta, noi non saremmo proprio esistiti, oppure avremmo avuto un’altra nonna?). Le cose andarono così. Il mio bisnonno, Oreste Fabbri, era un piccolo imprenditore, con una decina di operai: fabbricava attrezzi agricoli, molto richiesti. Allorché la situazione si fece critica prese una decisione che sgomentò l’intero paese, perché nessuno, prima di lui, l’aveva ancora fatto: disse ai suoi operai di rimanere a casa, chiuse la sua azienda e si apprestò a fare la stessa cosa. “Almeno un mese tutti tappati in casa!”, ruggì (era un omone biondo e incuteva parecchia soggezione). La mia bisnonna protestò perché era una donna di chiesa e traeva molto conforto dal partecipare alle funzioni, ma il bisnonno fu molto duro: “Pregherai in casa. Non ci vuole molto a realizzare un altarino”. I fratelli più grandi di mia nonna protestarono, a loro volta, perché avrebbero desiderato incontrarsi con le loro fidanzate, ma il bisnonno Oreste alzò la voce: “Meglio zitelli che morti. Se sono innamorate, aspetteranno”. Dopo la serrata si procedette al conto delle provviste, generalmente abbondanti quanto abbondante era la casata (“E i miei fratelli maschi quanto mangiavano!”, chiosava mia nonna). La loro casa, al centro di Rocca San Casciano, in Romagna, aveva un cortiletto posteriore con il pozzo (dal quale attingevano l’acqua per bere) e un paio di stanze adibite a dispensa, nelle quali erano accumulate forme di formaggio, farina, legumi, olio, salumi. Il mio bisnonno (capisco che gli affari gli andassero bene, perché doveva essere un uomo molto organizzato), con carta e penna (anzi, con il “lapis”, diceva mia nonna) fece un inventario dei cibi a disposizione e preparò una specie di tabella di marcia, in modo da non mettere fuori casa il naso dalla loro abitazione per almeno un mese. Dapprima consumarono quel che si conservava meno a lungo, come il burro, il latte, le uova, la carne fresca (“Avevamo solo tre o quattro polli che da poco ci erano arrivati”, ci spiegava ancora la nonna, “e qualche salsiccia”); dopodiché formaggi e patate. La mia bisnonna, quando il latte finì, propose di mandare al mercato qualcuno dei ragazzi, oppure- privilegio dei paesi- di affacciarsi alla finestra e di dare una voce per farselo portare a casa, ma il bisnonno non volle sentire ragioni e pare le rispondesse: “Non ci farà male stare per un po’ di tempo senza il latte! I cinesi non lo bevono mai, e stanno benissimo”, informazione che doveva aver tratto (era un amante della geografia) da uno di quegli almanacchi ai quali era abbonato. Fu quindi la volta delle patate e dei salumi, e, da ultimi, i legumi: ceci, fagioli, lenticchie, di cui a casa Fabbri c’erano enormi sacchi di juta così come di farina, sicché il pane non mancò mai (il mio bisnonno talvolta riceveva pagamenti “in natura” dai contadini che non avevano denaro). Non mancò mai, a dire il vero, neanche il vino (al quale all’epoca si attribuivano parecchie qualità, perfino quella di rinforzare, diremmo adesso, le difese immunitarie…) Per quanto fossero ben forniti, dodici bocche da sfamare erano pur sempre dodici bocche, e il menù dell’ultima settimana di reclusione dei Fabbri (l’isolamento si era prolungato per ben sette settimane, finché le notizie che filtravano dall’esterno non erano state più confortanti per quel burbero e un po’ dittatore del mio bisnonno) previde praticamente solo fagioli, fagioli assoluti, fagioli in brodo, pasta e fagioli, fagioli piccanti, fagioli con la salsa, fagioli a pranzo e fagioli a cena, e, al mattino (scomparso il caffè, scomparso l’orzo, lo zucchero), pane intinto nel vino allungato e dolcificato col miele. A distanza di settant’anni, mia nonna era convintissima di una cosa: che l’#iorestoacasa del mio bisnonno li avesse salvati; e che, dopo il 1920, non aver mai più mangiato un fagiolo in vita sua- le davano quasi i brividi, solo a guardarli- fosse una ben piccola conseguenza di quello che era stato, davvero, un grande successo.