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“La posteggia”. Un mito, un rito, e un sogno d’amore lungo secoli di storia! (di Maurizio Varriano)

“Dona splendore a quel perfetto viso……” – “ Sei superbamente librata come il vento…..”

Quante volte ci siamo liberati il cuore e la mente, con frasi ad effetto dette a chi il nostro cuore ha rapito?

Chi di noi non ha mai scritto delle frasi poetiche alla propria amata?

Beh, la risposta è davvero superflua ma, a Napoli, il Mondo gira completamente in maniera diversa.

Originalità, fantasia e simpatia, non manca e, questi doni rendono il corteggiamento del tutto anomalo e pieno di vivace sentimento d’approccio.

Il Segreto ? “La posteggia” , naturalmente !… Infallibile e sempre attuale, armoniosamente Napoletana sino alla “ follia “ di una lavatrice che, dai panni strizzati genera , alla sua apertura per la “stesa” al sole , profumo inebriante e musica effimeramente dolce ed accattivante.

Anticamente la posteggia significava anche altro tipo di fare musica. Si sostava in un punto fermo “Appustiati”. Sotto il balcone di una donna, per esempio, per dedicarle una serenata o, girando per i tavoli di una taverna, per allietare i clienti.

Oggi, sicuramente, è il miglior modo per tornare felicemente a parlare d’amore.

La tradizione vuole che essa venga attuata in 4 o 5 elementi con chitarra, violino, mandolini e voce. Una tradizione secolare che ha rischiato di scomparire per colpa dei nuovi metodi di corteggiamento e della distanza sempre più grande, tra il vero amore e l’amore via sms.

Per fortuna l’amore vero trionfa sempre ed ultimamente, la “ posteggia “ è tornata prepotentemente in auge e, neanche a pensarlo, soprattutto tra le nuove generazioni.

Cambiano i tempi, cambiano gli attori, ma la posteggia anche in due od addirittura soli, fa sempre effetto. Poi, se i Napoletani ci mettono la loro verve artistica e mimica, la storia cambia aspetto e diventa un vero e proprio spettacolo da godersi dall’inizio alla fine.

Chi non ricorda il suo culto nel “novecento napoletano” condotto dalla Napoletanissima Marisa Laurito? Chi non ricorda la voce del posteggiatore d’eccellenza, il comm. Stella ?

Incredibili le performance del posteggiatore in “Così parlò Bellevista” di Luciano De Crescenzo, che per evitare di disturbare suonò muto esibendo un biglietto con su scritto “ Non suono per non disturbare “.

Ma un po’ di storia non gusta ed è pur giusto ricordare ai più, che Edoardo De Filippo, il quale non aveva bisogno di dichiararsi, poiché gran donnaiolo, nel non far trapelare il vero amore verso quale cuore lo avesse versato, non gradiva molto i posteggiatori al suo tavolo anzi, li scherniva suggerendoli di andar via, anche a costo di dar loro la mancia senza l’ausilio della prestazione.

La posteggia si perde nella notte dei tempi. Cambiano gli strumenti musicali e la musica ma, essa è vige sin dal VI secolo avanti Cristo e se ne trova segno nella coppa, proprio del IV secolo A.C. conservata nel Museo di Taranto. Nell’antica Roma si sollazzava con essa ed ancor prima lo facevano i Greci.

A Napoli arrivò nei primi dell’anno mille e se ne fece una vera e propria attività economica. Arrivò sino alle orecchie di Giovanni Boccaccio, tanto da decantare le gesta dei posteggiatori e classificando loro, veicoli d’amore.

L’economia dei professionisti aumentò a dismisura sino , addirittura, ad unirsi in corporazione presso la Chiesa di San Nicola alla Carità. Una Corporazione che stabilì le regole ed i compensi da attenersi. Nel ‘600, epoca storica per l’identità della canzone Napoletana, vi erano a Napoli, secondo la conta del Marchese di Crispano, ben 112 taverne e questo favori a dismisura il moltiplicarsi dei “posteggiatori” , da cui deriva tra l’altro il nome dei posteggiatori delle carrozze, oggi automobili, nel conferire lo spazio per la sosta garantendo incolumità e garanzia di ritrovar il mezzo. Tra i cantanti più noti vi era Pezzillo ‘e Junno ‘o cecato.
Nel ‘700 i luoghi di posteggia si moltiplicano ed i più rinomati divennero : le “pagliarelle dello Sciummetiello” e la Taverna delle Carcioffole al Ponte della Maddalena dove si leggeva la famosa quartina:

“Magnammo, amice mieje e po’ vevimmo
nzino a che nce sta ll’uoglio a la lucerna;
chi sa se all’autro munno nce vedimmo;
chi sa se all’autro munno nc’è taverna”.

Ma il mondo andava evolvendosi. Il classico e la musica religiosa erano dominanti ed i Napoletani, da grandissimi improvvisatori, vollero dare segno di nuova linfa e di grande spirito di adattamento al nuovo che eri li alla porta a scalpitare.

E fu così che nacquero i professionisti della musica a pagamento.

Anche Mozart seguì le gesta Napoletane e si garantì il futuro proprio lasciando di sasso l’Arcivescovo Colloredo per, nel 1781, diventare l’emblema al soldo degli spettatori.

Il teatro iniziò a far faville, la gente ad uscire con cognizione e convinzione che il divertimento e la tradizione avesse donato pace ed aggregazione. I locali dedicati sempre più pieni di gente ed, Enrico Caruso, ebbe l’intuizione nel porsi al Mondo, sino a diventare il grande tenore che tutti ricordiamo come il migliore di tutti i tempi.

Molti i posteggiatori celebri che hanno fatto la storia della posteggia e di Napoli.

Da Giuseppe Di Francesco “ o zingariello “, famoso per aver nel 1879 convertito Richard Wagner alla posteggia napoletana, tanto da volerlo con lui. Questo sino al 1883 quando lo stesso fu scacciato poiché “ sfasteriato e fa o sprammobile “, mise in cinta tutte le cameriere.

A contendersi lo scettro di posteggiatore d’eccellenza, Pasquale Jovino detto “ ‘ o piattaro “ , per la sua vena artistica nel campo della ceramica, fece assopire le menti e determinare gioie immense anche in filosofi come Giovanni Bovio. Dopo Posillipo divenne talmente famoso da essere acclamato a New York, Berlino e Pietroburgo. Al Quirinale la Regina Margherita nell’ascoltar la canzone “ la risa “, rischiò di cadere dalla poltrona tanto il troppo ridere.

E poi, Gennaro Olandese detto ‘ o ‘nfermiere “, Vincenzo Righelli “ Coppola Rossa ”, Pietro Mazzone, detto “ ‘ o romano ” nato nel 1864 e morto nel 1934, il primo tra i posteggiatori napoletani ad entrare in sala d’incisione, i fratelli Vezza, detti “ ‘ e gemelle ”, i quali eseguirono una parodia della “Malafemmena” di Totò che, lungi dall’esecrarli, li plaudì moltissimo, diventandone fan.

Nella sua voce vi era una particolare incrinatura che, nel gergo, è denominata “striscio”, per cui egli riusciva ad avvolgere in un velo di tristezza le canzoni più nostalgiche.

Con loro non si può dimenticare, Eugenio Pragliola, detto “ Eugenio cu’ ‘ e llente “ che si esibiva con degli occhiali senza lenti ed una bombetta accompagnandosi con una divina fisarmonica.

Famose le sue interpretazioni post esibizione e sole al fine di chiedere il compenso :

“ Signure e signurine, ledi e milord,
aggiate pacienza, cacciate nu sord’.
Pe’ chi nun tene na lira ‘e spiccio,
c’è hann’ ‘a ascì ‘e bolle ‘ncopp’ ‘o sasiccio “ …

E da li chi non ha mai cantato la “ tammuriata nera “ ?

  ‘E ssignurine ‘e Caperichine
fanno ammore cu ‘e marrucchine,
‘e marrucchine se vóttano ‘e l’anze,
‘e ssignurine cu’ ‘e panze annanze.

O anche quest’altra simpatica strofetta:

Aieressera a Piazza Dante
‘a panza mia era vacante,
si nun era p’ ‘o contrabbando
mo già stevo ô campusanto.

Un grande artista che purtroppo come spesso accade a quelli veri, veraci e soprattutto napoletani fino all’osso, non andò bene negli anni successivi alla sua giovinezza.

Ma il più famoso di tutti i tempi fù “ Totonno “, Don Antonio ‘ o cecato.

Totono nacque cieco nel 1816 . Fu benvoluto nientemeno che da Giuseppe Garibaldi, tanto da concedersi da padrino di cresima. Per ringraziarlo, Totonno , adottò la canzone “Lo zoccolaro” con versi patriottici e ne cambiò Il titolo in “La bandiera a nocca”. Quando morì, il suo violino finì nelle mani di Giovanni Capurro,   autore di “‘O sole mio”.

Di notevole statura, sempre con il sorriso sulle labbra, nella parola mancava delle lettere esse, g, elle e questo era sinonimo di incredibile ilarità, tanto da renderlo indispensabile per le feste del popolo.

Compose una squadra di 5 suonatori e fu l’apoteosi per una Napoli alla ricerca di nuove emozioni. Per oltre 50 anni fu l’antologia della musica tra la gente dei quartieri poveri , merito anche della conosciutissima “ Cicerenella”.

Ma la vita da posteggiatore dei plebei riservò egli un destino becero ed, abbandonato dai suoi compagni , iniziò a patire la fame ma, senza mai perdere il suo sorriso.

Divenne il giocattolo di chi lo sfamava e, quando costoro chiesero di udir la sua voce,  uno scoppio di applausi, ebbero ad emozionarlo sino al pianto accompagnato dalla sua “ Cicerenella “

– “Cicerenella teneva nu gallo
e tutta ‘a notte ce jeva a cavallo . . .
Cicerenella teneva teneva
teneva na cosa, ma nun ‘o sapeva …”

In un tripudio di risate, ridevan bambini, vecchi, giovani, donne, assiepati nell’allegra piazzetta Tagliavia. Fu quello il suo ultimo canto prima di cantare e far gioire gli Angeli che lo aspettavano …

Una storia che non poteva essere non ricordata, quella di Totonno, figlio di un Cannoniere della Marina che assurse a se la bellezza di una Napoletanità assoluta, piena di grandi conquiste e di enormi contraddizioni. Il posteggiatore della vita, che famosissimo nella sua Napoli più vera, non ebbe la forza di uscirne per diventare un posteggiatore della borghesia.

Oggi i posteggiatori son tornati ad essere la conquista di una rinnovata Napoli. Una forza che gradualmente si trasferisce a nuove generazioni e che della canzone in rima ne stan facendo note d’amore per i cuori delle amate.

Alfredo Imparato, Gianni Quintiliani, Gigi Salvati, Franco Fucci, Antonio De Santis i più conosciuti, oltre all’amico Arsenio Perrotta a cui dedico la parte conclusiva di questo racconto che mi ha emozionato tanto da ricondurre ogni cosa ad un bel piatto di cozze “ ‘ o marnar “.

Ebbene si, Arsenio Perrotta amico datato, chef e posteggiatore “d’autore”.

Un omone che contribuisce a dare alla Bella Napoli, un’immagine serena, non sofisticata, dolce e soprattutto vera.

Poesia senza tempo in un tempo che della poesia si è decimata la forma struggente, a cui Arsenio ridona forza imponente e decisiva dell’accompagnamento musicale e razionale, con la tipicità assoluta di una voce, roca ma possente, viva e mai banale.

Le sue mani, assorte alla cucina d’autore , come la sua musica, librano senza sosta in accompagnamenti tradizionali companatici di strofe e battute in musica, improvvisate

“ all’antrasatta “, senza carta e penna, ma solo con l’acume di un testone così grande quanto buono.

Tra una pizza ed un’altra, tra un polpo all’insalata ed un piatto di cozze dall’eccellenza sopraffina, si sente cantare l’amore per una donna che del destin fato ha rotto l’incantesimo più sotterraneo e nascosto. Risolleva cuori, allegria e simpatia sino al brindisi finale, che è cominciato almeno tre ore prima, e quindi, allo stato liquido del pensier che non si finge al cospetto dell’Amore.

Arsenio, apre la propria porta al Mondo della Posteggia d’Autore con ritmi astratti quanto concreti, ricorda i miti della musica Napoletana quale Pino Daniele, Carosone e quindi del presente e del passato, passando per Stella, grande maestro ed amico delle trattorie d’eccellenza.

La sua Antica Locanda Don Carlo, dall’alto del Quartiere Chiaiano, o degli ospedali, è meta di artisti, amanti della canzone Napoletana e sede di incontri incredibili. La Napoli della canzone d’autore e della posteggia , fa a gara per accaparrarsi un piatto di cozze con la gioia di partecipare ad estemporanee che del passato godono il succo e nel presente vivon di amicizia, sincera informalità, passione e godereccia musica senza tempo.

 Il viaggio volge al termine con il pensiero all’amore ed alla sua poesia cantata.

Non vi è alcun dubbio che la posteggia d’obbligo occupa un posto ancor più importante rispetto a tutta la musica Napoletana.

Molti esimi scrittori, poeti, cantanti, parolieri, sperano ancora che il posteggiatore abbia il suo riconoscimento con l’erezione di un Monumento , e perché no, proprio nella Vecchia Napoli da cui si affacciavano le Belle e sognavano l’amore al suono ed al canto di una “ posteggia “ che determinava e determina, il compimento di un corteggiamento sempre vivo e sempre veracemente Napoletano. Lo si pensa con la bocca aperta, lo sguardo interrogativo e la chitarra tra le mani.

Meriterebbe davvero questo riconoscimento come, lo meriterebbe Edoardo Nicolardi, poeta , paroliere e giornalista Italiano, che si fece carico di scrivere le più belle canzoni che i posteggiatori facean e fa goder goder alle “ belle “. Tra le tante : “ Voce ‘e notte “ , “ Tarantella ntussecosa “, L’ammore a tre… “, “ Primmo ammore “, “ Surdato ‘e Napule “. Lo stesso che vide , da direttore amministrativo del Loreto Mare, dove assistette, nel 1944 , alle prime nascite di bambini di colore, concepiti dalle ragazze napoletane con soldati americani, l’ispirazione di quella “ Tammurriata nera” di cui, esplicativo nella prima parte del viaggio di oggi, e che tanto ha mondializzata la Napoli , capitale di un Mondo che della posteggia ne è “ la sua Regina “.

Con un grazie a Giulio Mendozza, il quale mi ha permesso di conoscere ogni sfaccettatura della posteggia quale mito, rito e sogno d’amore lungo secoli di storia , il viaggio termina con una canzone di Luca Carocci feat Arsenio Perrotta, dal titolo “ Si Putesse turna’ aret “. Essa racchiude tutta l’essenza della musica d’autore Napoletana nella versione più attuale . La canzone decreta l’infinita bellezza e voglia di essere protagonisti della tradizione nella sfera di un Mondo che assume sempre più le caratteristiche di un Mondo distante ma presente, vicino ma lontano, piccolo ma grande, dove se si potesse tornare indietro si parlerebbe solo d’Amore perché l’Amore è il vero volano della vita :

“Se putesse turnà’ aret, cagnasse tanta cose, amor mio.
Se putesse turna’ aret, ricesse tanta cose pure a Dio,
Pekkè ammor nun’è ammore, si piglia a’ cap e non te piglia o’ core, p
Ekkè ammore nun’è ammore, si ruorm a suonn kin mentre t’sto vicino.
Nun è cu ‘na bucia, che s’acconciano e’cose,
Nun è na malatia a puccundria è stasera,
E cca chi rest sul è pekke a chius o’ cor, pekkè a chiuso o’ core.
Sient’ stu vient fort, tras pe tutt part,
O’ saje nun’se ne ‘mport e bussa’ primm e’
Trasii, e s’vness ammore, se accussi’ vness ammore…
E va’ fin e dove fernisce o’ mare,
Cammin fin e quando nun cia faje kiu, e nat’ sfurz ancor,
Aro’ ferniscene è pensier,
Pecchè là accumence ammore, kell’ammore che vuo’ tu.
E va.
Fin e dove fernisce o’ mare cammin fin e quando nun cia faje kiu,
E nat’ sfurz ancor, aro’ ferniscene,
Addo’ ferniscn è parole e te rest
Sul l’ammore, kell che hai sunnat tu.
Se putess turna’ aret,
Cagnasse tante cose ammore mio,
Se putess turna’ aret, ricesse tant cos’ pur a Dio…”