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Quando il tempo mette le scarpe di ferro (di Ezio Sinigaglia)

Milano, 4 aprile 2020

Caro Valentino,

sai che sono colui dei paradossi e, dunque, non ti scandalizzerai troppo di vedermi spezzare una lancia a favore del vituperato virus. Che cosa ci ha fatto costui? Lo scrivi tu stesso e lo dice il titolo sotto il quale si svolge questo nostro carteggio: ha sospeso il tempo. Che è quasi come dire che l’ha fermato. Il tempo che per tutti, ma specialmente per noi vecchi, fugge sempre più virgilianamente irreparabile, da alcune settimane si è messo le scarpe di ferro, ha accorciato e appesantito il passo, ha dilatato le sue minuscole parti componenti in larghi minuti, in lunghe ore, in giorni smisurati. Dall’ultimo caffè del bar, dall’ultimo bacio sulla guancia mi sembra passato un anno, e il mese si è appena compiuto.

È un’esperienza nuova, o per meglio dire non nuova del tutto, ma che certo non mi aspettavo più di rifare: godere della provvidenziale lentezza del tempo.

Mi è già successo cinquant’anni fa, da soldato. Non è un’iperbole: saranno cinquant’anni davvero, verso il 10 di ottobre. A quell’epoca il servizio militare era duro, aspro, offensivo, specie per un giovinetto un po’ blandamente viziato, un po’ dolcemente immaturo com’ero. Il tempo non passava mai. Dopo tre giorni in caserma, pensare che mancavano ancora gli stessi quindici mesi che mancavano il giovedì dell’arrivo metteva un’angoscia indicibile. Eppure, pian piano, quell’irregolare comportamento di Kronos cominciò ad incantarmi. Durante le marce (la più lunga era di circa un’ora all’andata e un’altra al ritorno) l’atteggiamento persecutorio dei rudi sergenti cessava, o meglio restava in sospeso (dovevano risparmiare il fiato anche loro) e il tempo, quel tempo lento che passava a passo di piede pesante, era mio e solo mio. Ne godevo ogni istante con un’intensità che dall’infanzia non avevo più assaporato. Era autunno, fra le Marche e l’Abruzzo, nei boschi. Una profusione di tinte, una festa di rossi e di gialli, come se le foglie volessero cantare la loro gioia di staccarsi dal ramo, di cadere sul nostro sentiero e di farsi calpestare da noi fanticelli. Paesaggi d’alta collina o di mezza montagna a me sconosciuti ma che naturalmente richiamavano alla memoria altri paesaggi di bosco, su per gli erti viottoli della Liguria interna, il solo scampolo di natura, quasi quasi, di cui avessi esperienza. Il mio pensiero volava, si faceva passato e si faceva futuro, mi sentivo esultare.

La sera sedevo a fumare sulla soglia della mia camerata, con il sedere dentro e la testa di fuori, e guardavo una casa rossastra appollaiata sulla vetta di un poggio. La sigaretta durava un tempo così dilatato che nessun macchinario dell’epoca lo avrebbe saputo contare. Andavo e venivo dal poggio al cortile, scrivevo e scrivevo: interi romanzi che, come il fumo, volavano via. Eppure qualche traccia di quel fantasticare è rimasta, ne sono convinto. Ho fondato laggiù, su quella soglia di pietra fredda, sotto lo sguardo benevolo di quella casa rossastra, nei minuti/stagioni di quelle sigarette rubate, il mio avvenire di scrittore.

Sembra quasi che cinquant’anni siano passati più in fretta di ciascuna di quelle piccole epifanie prodigiose. Questo per dire del potere beffardo del tempo, che ci stringe o ci allarga la vita a suo piacimento. A noi non resta che adeguarci al suo passo. Perciò, in questo frangente, non dobbiamo aver fretta.

Certo fra il servizio militare e una pandemia ci sono differenze abissali benché, curiosamente, tutti in queste settimane, dai cronisti ai ministri passando per gli indaffaratissimi rappresentanti della Scienza incarnata, spendano metafore belliche con la stessa disinvoltura con cui in altri campi si spende il denaro degli altri. La principale differenza consiste nel fatto che il servizio militare in tempo di pace fa un numero di vittime insignificante a paragone di una pandemia come questa. E quassù il banchettare della morte lo abbiamo avvertito. Ce ne è arrivata l’eco, quanto meno.

Del resto il nostro palazzo ha il portone in via Lazzaretto e, addirittura, occupa uno degli angoli del Lazzaretto di manzoniana memoria. La casa risale all’inizio del secolo scorso: una casa piccolo-borghese tipica della Milano dell’epoca, con un grande cortile sul quale si apre una scala in ciascuno degli angoli: praticamente quattro condomini in uno. Il nostro appartamento, che è all’ultimo piano, corre stretto e lungo per un intero braccio dell’edificio (la terminologia carceraria, di questi tempi, non è fuori luogo) e le finestre, in sostanza, affacciano tutte sul cortile. Il che corrisponde a dire che guardiamo dentro il Lazzaretto, in uno spazio che, regnante fra’ Cristoforo, ospitava i letti dei morituri. Si direbbe dunque ch’io mi trovi in una posizione privilegiata per soppesare la drammaticità degli eventi.

La realtà è ben diversa. Questa esposizione sul cortile, che per tanti anni abbiamo benedetto perché ci escludeva dai rumori del traffico, adesso ci pesa. Non abbiamo nessuna finestra dalla quale si possa vedere la strada, una strada qualunque. Se, per eccesso di zelo, ci fossimo chiusi in casa il 25 febbraio a consumare le provviste già accumulate e ad ordinarne di nuove, online o al telefono, non sapremmo nemmeno che Milano è deserta. O lo sapremmo non già per diretta esperienza ma, come i non milanesi, grazie alla mediazione dei media.

Questa nuova forma di cecità mi mette nelle gambe una voglia indomabile di uscire di casa. Bisogna anche considerare che ho avuto un infarto, quattro anni fa, e che di conseguenza ho ricevuto dai medici, ben prima dell’ordine di chiudermi in casa, l’ordine di camminare di buon passo almeno quaranta minuti a giorni alterni, o venticinque-trenta minuti ogni giorno. Così esco quasi quotidianamente per una passeggiata al mattino e, al pomeriggio, ogni volta che l’occasione si presenti, per le necessarie provviste.

Milano non è completamente deserta. Di questo potrei assicurarmi anche senza mettere il naso in via Lazzaretto perché davanti a casa nostra passano i tram, quei vecchi tram Art Déco che restano fra i simboli più sentimentali e meno trivialmente up-to-date della mia industriosissima patria. Passano, rispetto al consueto, con frequenza assai rallentata ma, in compenso, a velocità ben più allegra cosicché, quando trovano verde il semaforo, fanno tremare il vecchio palazzo dalle fondamenta su su fino ai nostri capelli e cristalli. Un tintinnio insieme minaccioso e festoso che ci informa diverse volte ogni ora della permanenza in vita della città e del suo cuore, brachicardico ma ancora pulsante.

Milano non è completamente deserta, ma quasi: vi sfilano i tram, qualche rara automobile, qualche furgone, qualche passante in mascherina chirurgica. Pochi. Se, appena uscito di casa, getto lo sguardo a sinistra, in direzione del centro, posso di norma vedere il rettilineo di via Lazzaretto, nudo e lucente (per via dei binari, che rilucono al sole come alla pioggia), sbarrato là in fondo, dopo quattro o cinque centinaia di metri, dal verde ormai compatto (la natura ha fatto il suo corso, ovviamente, e gli alberi che alle prime avvisaglie del morbo erano spogli si sono nel frattempo vestiti di fronde) del giardino pubblico dalla cui massa indistinta, nelle mattine più limpide, un lungo ramo forse d’ippocastano si stacca come per un saluto. Particolari mai visti nei precedenti lustri, nemmeno negli agosti passati in città.

Non va dimenticato che Milano è una città singolarmente priva di dislivelli, di colli o di poggi, di salite e discese capaci di spezzare la traiettoria di una strada diritta, né che il nostro quartiere, nato appunto sopra la pianta del Lazzaretto di pestifera gloria, consiste tutto di strade non alberate che si tagliano l’un l’altra ad angolo retto. Di conseguenza la vista scivola su queste nudità impressionanti d’asfalto o di porfido verso orizzonti inauditi, e una città tutta nuova sembra prendere forma lì per lì dinanzi ai miei occhi di camminatore non del tutto legittimo. Quando varco di nuovo il portone, ho la sensazione di tornare da un viaggio, ed è passata soltanto mezzora.

Quel che mi manca è la possibilità di sedermi fuori di notte a godermi il silenzio della città abbandonata, a provare l’ebbrezza agghiacciante d’essere, come il narratore di Dissipatio HG, l’ultimo abitante rimasto della città e del pianeta. Vorrei avere il polso della Milano notturna, poter contare i fanali transeunti a quell’incrocio di corso Buenos Aires che, quando vado a fare la spesa, nel pieno del giorno, alle quattro, alle cinque, attraverso senza il minimo indugio col semaforo rosso.

È come vivere in una società dei consumi capovolta, dove il sociale è aborrito e i consumi (non essenziali) proibiti. Ogni abitudine, ogni vizio vacilla. Nessuna organizzazione terroristica islamica avrebbe saputo infliggerci, con il suo moralismo immorale, un contrappasso così efficace e beffardo.

Lo so, è doloroso, è sinistro. Ma sono certo che questo tempo sospeso porterà dietro di sé qualcosa di nuovo.

Sono anche sicuro che coglierai lo spirito di questa mia lettera che è già troppo lunga ma che, volendo, potrebbe proseguire per altre innumerevoli pagine, per altri chilometri di stupefacente deserto. Nei deserti si crede sempre di vedere qualcosa che manca.

Ti abbraccio.

Ezio

Ezio Sinigaglia è nato a Milano nel 1948. Ha svolto diversi mestieri, tutti legati alla scrittura: redattore, traduttore, fotocompositore, copywriter, ghostwriter, autore di guide turistiche e, da ultimo, docente di scrittura all’Università di Milano Bicocca e in altre sedi.
Dopo Il Pantarèi (1985), ha continuato a coltivare in privato la sua voce narrativa, mentre quella saggistica ha occasionalmente trovato la via della pubblicazione, e ha tradotto alcuni libri dal francese.
Dopo trent’anni dal suo esordio, Nutrimenti ha dato alle stampe un suo nuovo romanzo Eclissi(2016), che a febbraio 2020 è risultato vincitore del concorso Modus Legendi.
Nel 2019 la casa editrice TerraRossa ha ripubblicato Il Pantarèi e nel 2020 ha fatto uscire L’imitazione del vero, candidato al Premio Strega.