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La primavera non lo sa (di Matilde Iaccarino)

La signora Assuntina al primo piano va su e giù dal balcone con una bambola di pezza in braccio, la culla come una bambina, le canta antiche ninne nanne. Ha i capelli con una grossa ricrescita, si trascina piano con le sue ciabatte, avrà 80 anni, il marito l’accarezza mentre stende i panni del bucato e lei gli dice “ grazie, signore, è molto gentile “.

La primavera quest’anno è calda e impietosa, c’è un sole cane, che ti fa sentire voglia d’estate, di spogliarti nuda e sudata e correre scalza fino al mare. Ma non si può. Mare negato, piazza negata, strada, giardino, tutto negato, mentre scoppia di colori l’universo creato.

La mia bambina costeggia lenta lenta le aiuole del vecchio parco, strappa un fiore viola, poi un “ m’ami “, cioè una margherita e poi fiori gialli e denti di leone. Facciamo questo giro tre, quattro volte al giorno, e ogni volta lo spazio sembra più piccolo, i metri da percorrere si assottigliano, la strada sembra involversi, tanto alla fine si torna sempre indietro.

Una vita circoscritta. Manca l’aria. Mi sembra di soffocare. Solo Assuntina sorride con la sua bambola in braccio, per lei tutti i giorni sono uguali. In fondo da quando è iniziata questa storia è così anche per me.

Amelia porta giù il cane tre volte al giorno, fuma una sigaretta vorace, come se respirasse aria buona e gira su se stessa e chiama il cane.

Quando è iniziata questa storia, nelle prime settimane tutti si salutavano dai balconi, ridevano, la ragazza del palazzo di fronte che lavora al piano bar cantava per tutti due volte al giorno, un repertorio pop e religioso la domenica. Arturo che suona la tromba nella banda del paese si metteva fuori al seminterrato a fare concerti e tutti che applaudivano.

Ma col tempo è subentrata una noia malata e sottile, una mollezza nelle membra, una stanchezza di niente e di tutto, un colorito grigio nonostante il sole caldissimo in un’aria tersa, e i passi diventano più lenti, ogni giorno un po’ di più.

Daniela stende i panni e fuma, mi guarda e mi fa un cenno con la testa per dire “ come va”, faccio la bocca all’ingiù, per dire “e come deve andare“.

Danilo corre perché si allena ogni giorno nonostante tutto, fa su e giù e corre, smadonna e suda, quasi mi butta per aria perché stava guardando al di là del cancello elettrico del parco, quel muro di cinta che ci separa dal mondo là fuori. Scusa scusa, mo’ salgo che deve scendere mia sorella con la bici a farsi le vasche su e giù.

La signora Pina scende a dar da mangiare ai gatti. Menomale che ci sono i gatti, mia figlia ci passa le ore, li bacia, li abbraccia, ci parla e io la guardo cercando di entrare in quel suo mondo fatato e irreale in cui sorride sempre. Mi piace come agita la testa e i suoi capelli biondi al vento. Da quando è iniziata sta storia ho smesso di chiedere di attaccarli con nastri, elastici, almeno loro restano liberi.

La mattina passa facile, tra la spesa, lo smart working, i servizi di casa (mai fatti tanti in tutta la vita) ma il pomeriggio è lungo e impietoso. Non passa mai. Chiusi nelle case, dietro le finestre, in piccoli balconi trasformati in spiagge improvvisate, siamo animali in gabbia.

La signora Assuntina mi guarda e mi sorride, mi mostra dal balcone la sua bambina: “Guarda, gioca”. Ha una lunga vestaglia blu di raso. E’ bella.

Nell’appartamento sotto da me ci sono un numero imprecisato di persone. Stanno tutte insieme, una famiglia enorme, hanno portato su a spalla un pozzetto frigo per metterci tutto il cibo di cui avranno bisogno.

Si deve pur sopravvivere in qualche modo. Mangi, cucini, mangi, ti penti, ingrassi e poi provi a fare su e giù con la tuta che ti fa le pieghe impietose sui fianchi e sulla pancia.

Frigoriferi pieni e anime svuotate.

I tre fratelli che vivono al piano terra hanno montato una palestra nel giardino. Stanno con i tutorial di fit box tutto il giorno e musica motivazionale. Fanno ginnastica e non si parlano.

Quando sento che la cappa di umanità si fa pesante e i miei pensieri non girano, ho la via di fuga, salgo sul lastrico del palazzo e respiro forte, mi arrampico sulle impalcature dei lavori che dovevano finire un secolo fa e restati incompiuti e sento il vento in faccia. Mi godo quella boccata di ossigeno. I fili di plastica che ho montato alla buona per stendere i panni fanno ombra sul pavimento rosso scuro, dondolano al vento come i miei pensieri, ritmici, assolati, senza rancore, senza timore.

C’è l’abito da sposa di mia madre che penzola sulla sommità del primo filo, è un abito di velluto bianco pieno di macchie di tempo che è passato. Non avevo mai pensato che mia madre fosse così minuta quando si è sposata. Quell’abito non mi entra, l’ho provato. Lo tengo lì tra le lenzuola e le maglie perché mi fa compagnia. Se ci fosse lei potrei chiamarla ogni giorno e litigare, dire, trascorrere minuti parlando del più e del meno, ma non c’è e preferisco non chiamare nessuno. Mi godo il vuoto cosmico. Anche il cielo notturno brilla di colori nuovi, è una cavità blu scuro con tante stelle appiccicate sopra che pulsano una luce accecante. E’ primavera e fa buio tardi, stracci di nubi rossastre all’orizzonte spennellano il cielo. A volte mi sembra una porta d’accesso lasciata laggiù, pronta ad aprirsi. Più spesso mi appare una via di fuga.

Domani uguale ad oggi, uguale ad ieri e ogni sera, seduta sul ponteggio a sorseggiare una birra, sento sempre più grida isteriche nelle case, sono grida rabbiose da case laggiù. Dondolo le gambe nel vuoto, mi alzo la zip della tuta, che tanto vestiti non mi servono, e aspetto.

Sento una sottile pace che mi intorpidisce il corpo, lo rende più morbido, La rassicurante sequenza dell’identico.

Domani uguale a ieri, oggi uguale a domani. In fondo cosa ti può accadere chiuso in casa, mentre di difendi dal virus. La sospensione della vita ha un sapore dolce amaro. I primi giorni facevo ginnastica tutti i pomeriggi e ho imparato a fare i 5 tibetani, e va bene.

Perché questo periodo ti insegnerà a fare cose nuove, ad entrare in contatto con te stesso. Alla luce di oggi, con le patate al forno sullo stomaco e domani sui fianchi, mi sembra la più irriverente bugia raccontata all’umanità. Alla fine resti sempre chi sei, con o senza quarantena. Solo più grasso e con un colore improponibile fai da te per mascherare la ricrescita.

Eppure c’è una poesia in questo show della ripetizione: sono i panni stesi ad asciugare, Assuntina che canta la ninna nanna, mia figlia che mi prende la mano con lo stesso stupore ogni santissimo giorno.

Ma fa caldo, tutto attorno a me reclama vita, i colori abbagliano e feriscono da fare male al cuore e la casa è sempre più stretta.

Intanto ho scoperto il ciliegio fiorito in uno spazio stretto stretto tra il muretto di mattoni scheggiati e il limone. Un macaone si posa sulla gemma e sul fiore. E’ un mondo in quarantena, è una vita in quarantena, ma lei, la primavera, non lo sa.