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Nello scrigno dei capolavori perduti: “L’année dernière à Marienbad” (di Michele Messere)

Man mano che stavamo entrando in questo transitorio periodo di buio, il richiamo della voce della luna si è fatto via via più vivo e ha forse accompagnato il cammino di molti di noi, spesso ritmando il tempo di giornate ricorrenti. E per chi si fosse abbandonato a questo richiamo, il passo è poi stato breve nel riaprire lo scrigno dei capolavori perduti del cinema. È proprio di un capolavoro perduto che ci occuperemo oggi, una pellicola di Alan Resnais del 1961, “L’année dernière à Marienbad”, interpretato da Giorgio Albertazzi Delphine Seyring.

Il regista fu il punto di riferimento di una delle correnti più rivoluzionarie, sfacciate e controverse della storia del cinema, la Nuvelle Vague. Viene ricordato maggiormente per altri film, come Hiroshima Mon Amour, ma a ben vedere sono tante le sue opere che hanno irrimediabilmente cambiato i volti della settima arte, diventando oggetto di reminiscenze tanto in Fellini quanto nelle odierne opere di Sorrentino. Ne è un esempio proprio questa pellicola del 1961. Pellicola il cui esordio fu beffardo, mentre vinceva il Leone D’oro a Venezia, incassava al botteghino soltanto 130mila dollari, la critica ne era entusiasta mentre il pubblico fu mite nei giudizi. Il film, ritenuto incomprensibile e lento, fu poi persino inserito nel libro The Fifty Worst Films of All Time (1979), libro che dava l’avvio a quel filone, diventato poi moda, che rivalutava il cinema trash attribuendogli premi non istituzionali sfacciatamente dissacranti.

La trama del lungometraggio in questione narra la vicenda fra due amanti, o meglio, due figure che si ritrovano nello stesso luogo a distanza di un anno e che degradano ad una strana dimensione d’introspezione duale, attraverso la quale cercano di ricordare il loro passato amoroso, nascosto nel loro inconscio. Le reminiscenze sul passato peccaminoso dei due prendono (e al contempo perdono) forma in un sontuoso albero barocco, in cui s’alternano statue di marmo ai freddi volti di persone tutte alienate. Lo spettatore si muove in questo grottesco contesto rarefatto e spersonalizzato, cullato da una straordinaria tecnica di ripresa del regista: lente carrellate per i primi piani alternate a piani sequenza tra le labirintiche stanze dell’albergo; piani sequenza che attraverso specchi e geometrie restituiscono ora spazi e tempi dilatati, ora fermi immagine che disorientano lo spettatore rendendolo parte di uno strano gioco d’ipnosi.

Quella di Resnais è un’investigazione sulla natura contorta della memoria, che ha come contorno una disturbata trama romantica che tende a degenerare in “ghost story”. Coadiuvata non soltanto dalla maestria delle riprese: a restituirci questo gioco ipnotico e complesso infatti contribuiscono la fotografia ed il montaggio. Il montaggio, spesso componente impercettibile della settima arte, qui si fa materialmente percepibile violentando la trama attraverso l’intermittenza di singoli fotogrammi lampeggianti, che diventano gli impulsi irrefrenabili dell’inconscio dei protagonisti. Ciò mentre la cinepresa assume varie angolature, ora dall’alto ora dal basso, fluttua nell’etere di una dimensione edulcorata, spogliando lo spettatore della propria massa. Resnais rende malleabile la materia plastica di spazio e tempo cambiando semplicemente l’angolatura delle riprese: mentre mutano infatti le prospettive della cinepresa, contestualmente ci si ritrova in spazi diversi e tempi diversi. La trama è infatti principalmente un pendolo che oscilla tra i ricordi dei due amanti dell’anno precedente e le vicende del presente, mentre l’inconscio dei due protagonisti ora prova a ricordare, ora a dimenticare gli episodi di un flirt passato forse degradato in qualcosa di traumatizzante.

In pochi nella storia del cinema sono riusciti nell’impresa mirabile di rappresentare l’inconscio ed il sogno. In Europa Ingmar Bergman si staglia fra tutti, condividendo il posto con il nostro Federico Fellini, che particolarmente in 8 e 1/2 sembra prendere non pochi spunti dalla pellicola di Resnais di due anni più vecchia. Resnais che quindi con questo stesso film entra in una confraternita eletta, una sorta di scuola di Atene della storia del cinema. Ma le influenze determinate da questo film non si sono poi fermate al presente dei registi di sopra menzionati, arrivando fino ai giorni nostri. E’ infatti impressionante vedere come l’intera costruzione di alcune scene de “La grande Bellezza” di Sorrentino combacino con il lungometraggio preso ora in esame.

L’année dernière à Marienbad” è forse la più poetica storia d’infedeltà raccontata nel cinema, meravigliosamente costruita sul dissociato punto di vista dell’inconscio, che frammenta i ricordi e filetta il presente. Delicato nelle luci, ipnogeno nei suoni, modernissimo nella trama. E’ lo sguardo su di un mondo metafisico, più simile a un sogno, con uomini senz’anime e senza materia, e dove il tradimento rende vivi due corpi che fino a poco prima erano state soltanto comparse d’un mondo grigio senza protagonisti. Per gli appassionati di cinema guardare questo film è una danza con la storia della settima arte, le cui scene sono come lampi e tuoni che aprono impulsivamente a reminiscenze di altri lungometraggi. E’ il giusto momento per abbandonarsi alla voce della luna, e farsi ammaliare da questo meraviglioso capolavoro riposto nello scrigno dei capolavori perduti.