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Nevica poco o male (di Ida Di Ianni)

Un libro dai contenuti che non ti aspetti. Un libro che non si può leggere senza avvertire un forte sapore d’amaro che scuote come un farmaco necessario.

Voglio dire che la lettura di questo romanzo – nel caso mio di colei che legge per lavoro e non più per piacere – non si può fare a volo d’uccello, con occhio cioè allenato visivamente a ricercare parole chiave per ricostruire intuitivamente i contenuti della pagina.

L’opera deve infatti leggersi sequenza per sequenza nella trama fittissima e intrecciata di concetti e di meditazioni trasposte in approdi sentenziosi che, in forma di climax per lo più discendenti, si intersecano alla narrazione senza possibilità di esserne scissi.

Una narrazione che procede dunque senza lasciare tregua; che digredisce a volte per aprire il varco ad altra narrazione “filtro” rispetto a quella principale, in un andamento che impegna non poco il lettore in percorsi assai labirintici, tutti interni ai personaggi e che non concedono margine alla distrazione.

Una struttura pertanto particolarmente articolata, geniale e complessa a un tempo, in cui la voce narrante, quella cioè che tiene insieme le trame (perché diversi sono i protagonisti dell’opera), è una sorta di investigatore chiamato, più che a sciogliere l’azione, a darne ragione alla luce di un’analisi che tocca le corde interiori dei personaggi, vale a dire i moventi – consci e spesso inconsci – delle scelte e dei comportamenti, prima ancora che i loro esiti.

Tale figura, che finisce per mimetizzarsi e quasi sovrapporsi ai personaggi nella parte finale dell’opera (quasi a voler riprendere un ruolo che nella precedente narrazione parrebbe essergli sfuggita), sembra rappresentare quella necessaria “cornice” boccaccesca che restituisce unità e armonia a una realtà che si palesa estremamente difforme e disorganica, se analizzata da una lente di ingrandimento che voglia ricercare ordine e sistematicità.

I personaggi interni a ciascun capitolo dell’opera – tra l’altro non titolati per rappresentare una narrazione continua in quel fluire inarrestabile che è la vita – sono poi a loro volta voce narrante di racconti (e per racconto qui va intesa una narrazione che procede a ritroso nella memoria del personaggio) che tentano di restituire chiarezza e lucidità a vite magmatiche e informi, in cui i protagonisti vivono, spesso loro malgrado, una dimensione di normalità che nulla ha a che fare con questo concetto, più volte ribadito in una narrazione particolarmente scabrosa (voglio dire spigolosa) e intensamente disseminata di meravigliose immagini e similitudini e riflessioni di magistrale visione.

Personaggi che abitano sì un antico palazzo (un microcosmo, uno spazio in cui le vicende solo significano) che racchiude e nasconde queste esistenze, ma più ancora abitano una dimensione in cui sono stati costretti a conformarsi e da cui all’improvviso – novelli Belluca del “Treno ha fischiato” di Pirandello – si destano per dare atto a gesti omicidi o a scomparse clamorose.

Fuori dell’edificio che appare dormiente come i suoi sonnolenti inquilini, i personaggi sono invece “ombre”, vivono di una vita che a fatica si costruiscono ma che non li rappresenta e che ad un certo punto chiede di essere risarcita con esiti sempre drammatici.

Come Giuseppe, cinquantenne badante della madre malata e dispotica che imbraccia il fucile e si libera in un sol colpo di lei, di altra donna e dell’ingombro di se stesso e della propria inesistenza, della paralisi rappresentata dalla sedia a rotelle della madre, in un tempo che per lui continua a consumarsi senza redenzione.

Personaggi inetti, come zia Ida (“bigotta, non sapeva cucinare, non sapeva fare l’amore, non sapeva divertirsi, solo risparmiare, fino ad affamarsi, che aveva passato la vita a dire Ave Maria in chiesa, mai un viaggio, mai un desiderio”), sposata a un uomo per “garantire assistenza ai suoi sessantanni da vedovo”, nella vicenda della cui morte violenta si accoglie la lezione in substrato di Pirandello (nel tema dell’apparente “pazzia” della voce narrante) e anche di Svevo in Senilità.

Personaggi, insomma, che non trovano “la strada dell’adattamento e per questo sembra(no) precipitare nella stupidità.” Personaggi che, kafkianamente, avvertono e vivono e si uniformano a un processo – annunciato tramite lettera – di evanescenza, di reductio a fantasma nella progressiva scomparsa di ogni parte del corpo e nella relegazione dimenticata in una stanza, per esempio, per la signora che di suo si chiama Scacciapensieri: come nel vivere reale ella è stata solo apparenza, così nella dimensione privata scomparirà quasi per una fatale legge del contrappasso dantesco.

Stravolgente anche la narrazione della donna picchiata dal marito, umiliata, ridotta ad ameba di sé, che vive di colpe e aspetta. (“Allora, cristo, non ti puoi dimenticare il pane, unico impegno nella tua giornata inutile, nella tua vita inutile e sporca, perché sei una persona sporca. […] Sono diventata acqua stagnante, non so più cosa significhi la spontaneità di un gesto, di una parola; in questo pendolo scalcinato della mia vita ho paura di continuo, così aspetto, aspetto che arrivi una parola, o uno schiaffo, o le urla, una ruga profonda di fianco alla bocca e l’aspetto dell’animale braccato. La certezza mi salverebbe.”)

E poi il fruttivendolo che è diventato parlamentare e che continua a venerare la madre Carmelina che gli ha fatto da madre e da padre e che sogna di realizzare una casa dalle pareti bianche come riscatto da un’infanzia infelice vissuta in un tugurio.

Su ogni cosa, a pietra tombale, la neve che in diversi racconti scende, quasi a ricoprire di innocenza e di ingenuità, peccati di “forma”, per rimanere ancora con l’Agrigentino, vita che nel suo cristallizzarsi è fuoriuscita dai binari della norma.

Un libro che coglie le viscere, che entra e rimane: le sue pagine fanno male perché restituiscono un che di liberatorio al lettore, in finale richiamato alla realtà dall’investigatore, che sembra essersi perso nel frattempo nelle psicologie tortuose di altre esistenze. Come se anche la ragione di cui dovrebbe essere egli per sua funzione depositario, fosse stata offuscata dai veli delle tante esistenze percorse.

Ora resto qui, senza muovermi, mentre scende la pioggia autunnale, pungente e temeraria, sulle mie mani.”