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Da Tolstoj a Cirese, passando per Pascoli. Cometa e Covid-19, tra superstizione e poesia (di Giovanni Mascia)

Una foto dell’amico Pietro Grosso spinge a riconsiderare questo tragico 2020 sotto la luce, anzi la cattiva luce, della superstizione. Non bastava il tormentone dell’anno bisesto, anno funesto. Ci mancava pure la cometa, che non è quella di Halley, e siamo d’accordo, ma sempre cometa è. E per giunta visibile proprio in queste notti di luglio, ideali per restarsene al fresco con il naso all’insù a scrutare il cielo.

Scattata nel cuor della notte del 13 luglio, la foto riprende la cometa Neowise a perpendicolo su Toro, in tutta la suggestione della bellezza che deve rintuzzare i colpi della paura ancestrale, qui evocata dalle tenebre che incombono sul paese addormentato, impediscono ogni possibile volo pindarico con il presepe di Betlemme di duemila anni fa, e inchiodano la cometa alla millenaria fama di apportatrice di sciagure.

Fama da non ricondurre nell’ambito esclusivo del solito meridione d’Italia arretrato e ignorante. E nemmeno dell’area mediterranea sanguigna e sognatrice. Basta citare un colosso della letteratura universale come Leone Tolstoj, che in un passo famoso di Guerra e pace, sul quale torneremo, descriveva l’incanto della Grande Cometa del 1811/1812, non senza accennare alle credenze popolari su “quella cometa”, che “come si diceva, preannunciava ogni specie di calamità e la fine del mondo”.

Ci si è messa anche la scienza, nella persona della geologa marina americana Dallas Abbott, della Columbia University, che in un convegno dell’American Geophysical Society, svoltosi nel dicembre 2013 a San Francisco, ha messo in relazione diretta la peste detta di Giustiniano, che colpì l’Impero Romano d’Oriente tra il 541 e il 542 dopo Cristo, provocando almeno 25 milioni di morti, proprio con il passaggio, nel 530, della cometa di Halley.

Nel 2009, tra gli strati dei ghiacciai della Groenlandia, a un livello databile tra il 533 e il 540 d. C., la Abbott aveva rinvenuto un giacimento di “sferule cosmiche”, cioè di microscopiche palline di silicio e metallo, presenti nei crateri scavati dalle meteoriti, a seguito degli impatti apocalittici che le aveva originate. L’ipotesi da lei formulata nella circostanza è che un frammento della cometa precipitato nell’oceano avrebbe potuto sollevare detriti che, rimasti per mesi in sospensione nell’atmosfera, attenuarono la luce solare e portarono al crollo della temperatura media mondiale di ben tre gradi. Ipotesi in linea con alcune cronache del tempo, che raccontano di un sole sbiadito, simile alla luna, di un freddo inconsueto, di invasioni di topi, insetti e parassiti d’ogni specie con conseguenti carestie ed epidemie tra cui, appunto, quella della peste.

Tornando al passaggio della cometa Halley previsto per la notte tra il 18 e il 19 maggio 1910 gli scienziati, certamente ignari del cataclisma di quattordici secoli prima, calcolarono che una coda più lunga di 26 milioni di chilometri avrebbe potuto investire il nostro pianeta con i suoi gas. L’evenienza, in un primo momento circoscritta all’ambiente astronomico, fu resa pubblica nel gennaio 1910 con il bollettino della Società Astronomica di Francia e fu accompagnata dalla illustrazione dei vari processi chimici che avrebbero potuto portare all’estinzione del genere umano. Fu il delirio collettivo. Il dubbio spasmodico della fine del mondo imminente.

Tra gli altri ne lasciò una precisa testimonianza proprio Leone Tolstoj, che il 13 gennaio 1910, annotò nel suo Diario:

“La cometa sta per catturare la Terra, annientare il mondo, e distruggere tutte le conseguenze materiali della mia attività e delle attività di tutti. Ciò prova che tutte le attività materiali, e le loro presunte conseguenze materiali, sono prive di senso. Solo ha un senso l’attività spirituale…”.

In Italia gli faceva eco Giovanni Pascoli con il poemetto, Ode alla cometa di Halley, dettato anch’esso nel gennaio 1910. Sull’onda della cattiva fama delle comete in genere, che nei secoli precedenti avevano ispirato Torquato Tasso, Giambattista Marino, Vincenzo Monti, per restare ad alcuni nomi di vertice della poesia italiana, Pascoli evoca “ogni specie di calamità e la fine del mondo” collegate al memorabile passaggio della “stella randagia, astro disperso”. Rivolgendosi alla cometa, il poeta le ricorda che al suo apparire, “le stelle… / impallidiscono; ansa nei pianeti / l’intimo fuoco, alto s’impenna il mare. / Escono le sibille dai segreti / antri d’Urano. In riva dei canali / di Marte, in pianto, passano i profeti”. Ed ecco quindi che: “Pieno di pianto è il cielo dei mortali / figli del Sole; e sangue rosso piove / nella penombra, a man a man che sali”. Visione apocalittica, in cui rivive il terrore dei precedente passaggi, in particolare quello del 1301, quando “E dagli abissi uscita allor, Cometa, / tu fiammeggiavi lunga all’orizzonte”. E anche allora:

Le stelle impallidirono. Non v’era
altro che te nel cupo cielo esangue
che tu sferzavi con la tua criniera.

Tra i pianeti e i soli, eri com’angue
che uccide e passa. A questa nera Terra
dicevi il tristo ribollir del sangue,

l’ombre vaganti, i gridi di sotterra,
tutti gli affanni, tutte le sventure,
tutti i delitti: incendi, stragi, guerra.

Ovviamente Tolstoj e Pascoli, si sbagliavano, non ci fu nessun cataclisma, né un’impennata particolare di affanni, sventure, delitti, incendi, stragi, guerre. Dell’evento restano le prime storiche fotografie, con vedute spettacolari, grazie alla distanza ravvicinata con la Terra, non sfiorata ma addirittura passata indenne in mezzo alla coda della cometa. Con il senno di poi, si può immaginare che il grande scrittore russo più che della cometa pronta a catturare, annientare la Terra, alludeva inconsciamente alla morte che di lì a una decina di mesi, nel novembre dello stesso 1910, lo avrebbe catturato, annientato a 82 anni.

A pericolo scampato, il mondo tirò un sospiro di sollievo e prese a farsi beffe della cometa e della paura provata. “Passata la festa, gabbato lo santo” recita il proverbio, o per dirla alla molisana: “Votammola a tarantella e jammecénne!”. Anche da noi, come altrove, si ridacchiò. Il 22 maggio 1910 persino «L’Indipendente Sannita» un periodico che si stampava a Castelpetroso, riprendeva dal «Giornale d’Italia» uno sberleffo alla cometa, in versi romaneschi, dal titolo Un carcio ar monno (contro un Mericano strolicone).

Il giorno prima «La provincia di Campobasso» del 21 maggio 1910 si era divertita a disegnare un quadretto scanzonato della fine del mondo nel capoluogo molisano:

“L’apparizione della ormai famosa cometa di Halley e il temuto suo incontro con la terra non ha qui, in Campobasso, generalmente destato apprensioni. Pure, la notte del 18 maggio quasi tutta la cittadinanza vegliò festeggiando la imminente fine del mondo con allegre cene! Molto riuscito il cenone del Circolo degl’Impiegati. Dopo la mezzanotte quasi tutti uscirono all’aperto prendendo posto in varii punti della città, e mettendosi in osservazione del singolarissimo fenomeno che… non si è verificato”.

Eugenio Cirese non fu da meno. In un sonetto intitolato alla Cometa, calatosi nei panni di una popolana, riferisce a una non meglio identificata zia Teresa, dello strano e coinvolgente spettacolo celeste, paragonato a una bianca penna di pavone, divertendosi tuttavia a irridere la credenza sulla portata negativa del fenomeno, con una trovata a effetto, degna di una barzelletta più che di una poesia.

A cumeta

Madonna, zia Terè, che cosa grossa
e strafurmata!… Steva a ru balcone
prima de notte, e llà ne mme so mossa
aspettanne, e dicènneme urazione.

Lucevene le stelle… Nu cudone
‘pparètte ‘n ciele… Sempe cchiù ze ngrossa…
sembrava ghianga penna de pavone!
Te diche, zia Terè: restave scossa!

Però iè vere chélle che sta scritte
– nen sacce addó – ch’è `ndizie malamente
‘na coda de cumeta ‘n copp’a titte:

pe j’ a vedé lassave – nu mumènte! –
nu piatte de patate e pesce fritte…
iéve ‘n cucina e ‘n ce truvave niente!

La Cometa. Madonna, zia Teresa, che cosa grossa / e strana… Stavo al balcone / prima di notte, e là non mi sono mossa / aspettando, e dicendomi orazioni. // Lucevano le stelle… Una grande coda / apparve in cielo… Sempre più s’ingrossa… / Sembrava bianca penna di pavone! / Ti dico, zia Teresa: restai scossa // Però è vero quello che sta scritto / – non so dove – che è indizio cattivo / una coda di cometa in cima al tetto: // per andare a vedere lasciai – un momento! – / un piatto di patate e pesce fritto… / andai in cucina e non ci trovai niente!

Certo, si capisce la gioia per la scampata fine del mondo, ma da un poeta ci si sarebbe aspettato di più e meglio davanti a uno degli spettacoli naturali più singolari e suggestivi che sia dato di vedere.

Magari sulla falsariga di Tolstoj, che in Guerra e pace, proprio nell’incanto della cometa nella rigida notte stellata di Mosca, rende universale la beatitudine di Pierre innamorato di Natascia, il quale stordito di felicità corre in slitta con la pelliccia d’orso slacciata sul largo petto.

Era un tempo ghiacciato e chiaro. Sulle strade fangose e mezzo buie, sui tetti neri c’era un cielo scuro e stellato. Pierre, soltanto a guardare il cielo, non sentiva più l’offensiva bassezza di tutte le cose della terra a paragone dell’altezza dove si trovava l’anima sua. All’entrata della piazza di Arbàt un enorme spazio di cielo stellato e scuro apparve agli occhi di Pierre. Quasi a metà di quel cielo, sopra il corso Precístenskij, circondata, avvolta da tutte le parti di stelle, ma distinguendosi da tutte per la sua vicinanza alla terra, la sua luce bianca e la lunga coda levata in alto, c’era l’enorme luminosa cometa del 1812, quella stessa cometa che annunziava, come dicevano, ogni sorta di sventure e la fine del mondo. Ma in Pierre questa splendida stella, con la sua lunga coda raggiante, non risvegliava nessun senso di paura. Al contrario, Pierre con gli occhi umidi di lacrime guardava quella stella lucente che, dopo aver percorso con indicibile rapidità spazi incommensurabili secondo una linea parabolica, a un tratto, come una freccia che si affonda nella terra, pareva essersi infissa in quel punto da essa scelto nel cielo nero ed essersi fermata sollevando energicamente la coda, scintillando e giocando con la sua bianca luce fra le innumerevoli altre stelle sfavillanti. A Pierre parve che quella stella rispondesse pienamente a ciò che era nella sua anima, raddolcita e fortificata, che si schiudeva a una nuova vita.

O sulla falsariga del beneamato Pascoli, che dopo aver fissato in immagini crude le atrocità che la superstizione popolare associa alla cometa, come portatrice di sventura, addirittura della fine del mondo, le contrappone la figura di Dante. Al “ghibellin fuggiasco” che la fissa senza paura, la cometa di Halley nel suo passaggio del 1301, immortalato da Giotto nell’Adorazione dei Magi nella Cappella degli Scrovegni a Padova, apparve come una scure che fuma “lenta come un rogo”, emblema della condanna a morte in contumacia inflittagli nella sua città, Firenze, nella quale non potrà più fare ritorno.

Di più. Minacciando di annientare la terra disperdendola nel cielo “come una grigia nuvola di incenso”, la cometa avrebbe reso inutile anche la scienza, la politica, la filosofia, la letteratura, l’arte? Il dubbio è analogo a quello che si pone Tolstoj negli stessi giorni, per non dire nelle stesse ore. E Dante, l’Ombra (o, se si vuole, lo stesso Pascoli) regge il confronto: “solo nello spazio immenso / stava a te contro” e dà una risposta in linea con la convinzione del grande scrittore russo. Anche davanti al pericolo dell’annientamento totale, l’umanità deve rivendicare il primato del pensiero sulla materia, primato che la rende superiore agli astri, che pure possono annientarla (- Io mi son un che penso / – egli diceva – e sempre è il mio domani).

La cometa, in definitiva, può solo imprimere il segno della sventura sulla fronte di Dante, mentre il poemetto si chiude con la fantastica visione del poeta che, diventato una stella tra le stelle,

… immobilmente ascese tra il baleno
delle tue schegge, ascese senza fine,
come in un plenilunio sereno.

A dire il vero, Cirese tornerà ancora a parlare di comete, ma dovranno passare ben quarant’anni. È suggestivo ipotizzare che tornerà a farlo per chiudere il conto personale rimasto in sospeso con la poesia. Nel poemetto Lu muortecielle, che guarda caso ha punti di contatto assai stretti con L’aquilone pascoliano, la sua voce vibra dell’accento del poeta vero che rende straziante la scena del funerale del ragazzino morto, al risuonare delle campane a gloria. Vi partecipa solo la mamma sconsolata che lo porta al camposanto, in bilico sulla propria testa, come un cesto di panni o una tina d’acqua. Commiserandone la sorte, il poeta enumera alcuni fenomeni naturali, che la fine prematura, il non crescere, impedirà al morticino di sperimentare. E la cometa è tra quelli, anzi la coda della cometa:

Nen cresce,
nen vedé lache de lune,
né code de cumète,
né eclisse de sole
a scurrèje la terra;
nen sentì tuone ne afa de calle
né pése de zappe;
irsene a lu ripose scappa scappa
purtate ncape da mamma
a suone de campana a gloria.

Non crescere, / non vedere aloni di luna, / né code di comete / né eclissi di sole / a oscurare la terra; / non sentire tuoni né afa di caldo / né peso di zappa; / andarsene al riposo scappa scappa / portato in testa da mamma / a suono di campane a gloria.