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Il labile confine tra ragione e istinto: la storia di Medea (di Marilisa Canale)

Medea: dalla voce verbale greca μήδομαι, significa meditare, escogitare. Nomen omen. Per gli antichi, il nome contiene il presagio di chi siamo in potenza, delle radici profonde del nostro destino. Quello di Medea risuona nel tempo, ormai antonomastico in virtù dell’impronta che il fascino della sua mitica vicenda ha impresso nel solco della cultura letteraria, artistica, storica.

Nelle vene regalità, divino e magia: figlia del re della Colchide, Eeta, e di una ninfa, Idia, discendente diretta di Elio e nipote della spietata Circe.

Nell’animo scaltrezza, caparbia, determinazione. Passione. Quel fuoco ardente che accese in lei Giasone, principe di Iolco, giunto nella Colchide, terra d’Oriente, alla ricerca del sospirato vello d’oro. Una missione ordinatagli da Pelia, suo zio, che aveva spodestato il fratello Esone, nonché padre di Giasone, dal trono di Iolco: il vello in cambio della restituzione del regno. A custodire la reliquia, tuttavia, secondo il volere del sovrano dei Colchi, un temibile drago che Giasone avrebbe dovuto aggiogare da solo. L’impresa si sarebbe rivelata impossibile se non fosse stato per l’intervento provvidenziale della principessa-maga Medea e dei suoi filtri narcotici destinati al custode del vello. E, così, Medea sferza il primo colpo contro le sue radici: tradisce, per amore di un uomo, suo padre e la sua patria. Ma la voragine, ormai, è aperta. Uno squarcio cupo e trascinante, che Medea ha dilatato con le sue stesse mani. Al furto del vello segue la fuga di Giasone: le navi di Eeta incalzano dietro quella degli Argonauti. E, a quel punto, Medea arriva a sporcarsi le mani con il suo stesso sangue: uccide e fa a pezzi il corpo di Apsirto, suo fratello. La flotta del sovrano è costretta a rallentare per raccogliere i pietosi brandelli del cadavere.

Dopo il misfatto, i due amanti approdano finalmente a Iolco, ma il truculento ciclo di morti prosegue: Pelia, l’usurpatore del trono, deve essere eliminato. Medea, allora, convince le figlie di costui a fare a pezzi il padre e a bollire i resti di carne in un calderone: gli avrebbero, in questo modo, regalato una primavera eterna. Tuttavia, l’ingenuità le rende, orribilmente, assassine del padre. E così, fuggiti da Iolco in seguito al delitto, avrebbero trovato rifugio a Corinto.

Ed è proprio qui che ha inizio quel capitolo della storia rappresentato a teatro da Euripide, tragediografo ateniese di V secolo, nella sua Medea. In scena nel 431 a.C., tempo di decisivi cambiamenti per il mondo greco al profilarsi della Guerra del Peloponneso, la tragedia comincia con un monologo: la Nutrice dei figli di Medea è angosciata dalla sofferenza della sua padrona. Si odono urla strazianti dall’interno del palazzo: Medea è stata colpita nel cuore dall’amore per Giasone. Ripudiata da questi, il padre dei suoi due figli, per la figlia di Creonte, re di Corinto, Medea è destinata all’esilio. Si sente tradita, schiaffeggiata nell’orgoglio. Vorrebbe riprendersi tutto quello che ha offerto. E lo fa, subdola: vendetta e silenzio il binomio chiave del piano. Apparentemente mansueta, Medea riesce a carpire pietà dal re Creonte: l’esecuzione del bando è rimandata ed ella avrà qualche giorno in più per provvedere alla sorte sua e dei figli. Ma Creonte non avrebbe mai immaginato quale. E non poteva sapere nemmeno quanto questa sorte lo avrebbe toccato da vicino. Fingendo riconoscenza, Medea arma le mani innocenti dei figli di doni nuziali destinati alla futura sposa: sono intrisi di un veleno, che penetra e dissangua le carni della giovane donna insieme a quelle del padre Creonte corso in suo aiuto. La scena è cruda: una schiuma bianca esce dalla bocca sofferente, le pupille ruotate, il sangue che trasuda dalle vesti. Il torrente rosso fuoco l’aveva resa irriconoscibile a tutti tranne che a suo padre, rimasto avvinghiato al suo corpo come un’edera. Ma non basta. Medea, ormai, risponde ad un’unica legge: la vendetta. È una necessità, ineluttabile, urgente e, soprattutto, intima ed ancestrale, radicata nelle profondità di ogni animo umano. Appagante, ma insana. Alla vendetta di Medea mancava soltanto un tassello per essere completa: eliminare i due frutti di quell’amore mal ricambiato, levarli dal mondo con la stessa naturalezza con la quale vi erano stati messi. Medea sa quanta infelicità può arrecare ad un padre re l’essere privo di figli e, per questo, è necessario ucciderli. Anche a costo di condurre essa una vita infelice, privata dell’affetto più caro, della gioia delle loro nozze, dell’assistenza nella vecchiaia. Invano le doglie del parto. Osserva, per l’ultima volta, il loro dolce sorriso. Vacilla, rinnega, ci ripensa: non può infliggersi l’atroce assenza dei figli. Non può, ma deve. In fondo, forse, staranno meglio, lontani da un mondo che l’ha umiliata, condannata ad essere vittima di un sistema di leggi restrittive che, in linea con una visione fortemente grecocentrica, limitavano la concessione della cittadinanza ateniese, invalidando tutti i matrimoni misti: ai figli di questi non era concessa. Anzi, venivano messi al bando insieme al genitore straniero. Per Medea, la donna che viene da lontano, da quel mondo dove il Sole sorge, ma che dice bar bar, che balbetta la lingua greca, non c’è spazio. Medea è una barbara. Ma, prima di tutto, una donna: l’essere più sventurato fra tutti quelli che hanno vita e intelletto, costretta a comprarsi un marito con la dote e a renderlo padrone del proprio corpo. Buono o cattivo, dipende dal caso. Ad ogni modo, un divorzio sarebbe disonorevole ed inopportuno. In poche parole, impossibile, se non unilaterale, nella sola forma del ripudio. E, in più, costretta ad adeguarsi in tutto e per tutto a nuove leggi e costumi, qualora giunga da altrove. Medea non ci sta e, per questo, sceglie di decidere lei, nell’unico modo possibile: la rottura totale dei limiti imposti.

Come la tradizione vuole, Euripide avrebbe avuto il merito di fornire profondità psicologica agli inviolabili personaggi del mito, conferendo loro una dignità tutta umana. In tal caso, il tragediografo riesce ad analizzare la psiche di una donna coinvolta nella difficile lotta tra razionalità ed istinto. Ma Medea, nello sfiancante monologo del V episodio del dramma, dichiara fermamente: comprendo quali mali oserò compiere. Pronuncia il verbo greco μανθάνω (mantàno), che significa imparare. L’atto di imparare implica necessariamente il comprendere e, quindi, la piena consapevolezza dell’azione. Medea è lucida. Ha scandagliato, con dolore, i recessi del proprio animo, ma ora, più che mai, sa quello che fa. Se ne pentirà? Non importa, in quel momento ne è totalmente cosciente. Ed è proprio qui il merito di Euripide, nell’aver dimostrato il labile confine tra istinto e ragione. Medea non è, banalmente, un’ingenua marionetta in balia della parte più oscura ed ancestrale del proprio istinto: esiste una consapevolezza anche nelle scelte che non si adeguano alla moralità stabilita. La coscienza, da parte della donna, di sconfinare ogni norma ed etica che regolano il vivere civile è l’aspetto più rivoluzionario e sconcertante dell’arte euripidea. Consapevolezza non è automaticamente sinonimo di razionalità: l’essere umano, debole per natura, spesso è capace di scegliere anche il male e, dunque, di comprenderlo ed esserne consapevole.