L’orologio lo troviamo già nella Divina Commedia, al canto X del Paradiso. È qui che Dante fa un’analogia tra il funzionamento dell’orologio e la “gloriosa rota” dei beati.
Il suo sembra essere un vero inno all’orologio, il quale è però, val la pena sottolinearlo, una invenzione che ha una intrinseca portata laica, connessa allo sviluppo delle città e all’incremento del commercio nel Basso Medioevo.
L’orologio è il risultato di un bisogno: misurare il tempo in modo più preciso, razionale e “scientifico” per meglio regolare le faccende profane, economiche e lavorative innanzitutto.
Ed ecco che gli orologi “vengono rizzati dappertutto, di fronte anche ai campanili delle chiese”, ci dice Jaques Le Goff, a sottolineare che le campane rimanevano il segno visibile della memoria passata, quella che durante l’Alto Medioevo affidava e subordinava la percezione del tempo alle pratiche della Chiesa e alle ricorrenze religiose, ma l’orologio sopravanzava e indirizzava verso un sentiero nuovo, un percorso “moderno”, un processo di “liberazione”; non è un caso che proprio in questo periodo fu formulato il proverbio tedesco “l’aria della città rende liberi”.

Ma ecco che a un certo punto il tempo dell’orologio nei Comuni italiani e tedeschi e nell’Europa delle città si inceppò; nel Trecento l’aria nelle città si avvelenò.

Al peggioramento del clima, alle carestie, al crollo delle banche, alla crisi dei vari settori economici, s’incuneò una inimmaginabile e terribile ulteriore sciagura: una epidemia.

La peste bubbonica sembrò bloccare lo scandire del tempo del progresso; gli orologi sembrarono rallentare; la vita sembrò fermarsi, ritirarsi, murarsi, mentre l’atmosfera attorno si addensò di veneficio.

La peste nera fece probabilmente la sua comparsa in Asia, a propagarla potrebbe essere stata l’armata mongola che assaltò la colonia genovese di Caffa. Proprio le navi genovesi la diffusero lungo le rotte commerciali; il contagio dilagò ovunque.
Si stima che la prima ondata della epidemia abbia provocato la morte di un terzo della popolazione europea.

La medicina fu impreparata e impotente di fronte al batterio, che oggi sappiamo essere quello del pasteurella pestis.
Mancavano le conoscenze, mancavano le cure. Le misure erano ben poche: isolamento; quarantene cui venivano sottoposti animali e merci, oltre che le persone; confinamento dei malati nei lazzaretti.

Davvero forte fu lo shock emotivo individuale e collettivo, che si declinò in atteggiamenti assai differenti: c’è chi fu avvinto da religiosità esasperata, chi, al contrario, diede libero sfogo ai piaceri della carne e ai godimenti immediati vivendo i giorni come se si trattasse degli ultimi a disposizione; chi fece esplodere i rancori sociali; chi manifestò aggressività declinata in “parole moralistiche” scagliate con veemenza e grossolanità contro i presunti “untori”, dentro uno stagnante e reiterato atteggiamento di insistenza che esplodeva finanche in aperta intolleranza. Intolleranza vi fu senz’altro nei confronti dei “diversi”: attori, mendicanti, eretici, in alcuni casi i contadini e gli ebrei, questi ultimi perseguitati violentemente e in tanti casi massacrati.

In città il pregiudizio e l’ignoranza dilagavano, spezzando gli anni del progresso, bloccando l’orologio della socialità, sotto la scure della PAURA.

Ecco, la paura divenne la vera attrice di quel periodo; il senso di precarietà e la vicinanza della morte le sue consigliere, tanto che anche i rapporti familiari ne risentirono enormemente. Essi potevano improvvisamente interrompersi, c’era chi abbandonava amici e parenti per paura del contagio.

Boccaccio nel Decaneron ammonisce: “Alcuni erano di più crudel sentimento…[…] era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, ed il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito, e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri e’ figlioli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.

C’è da dire che chi sopravvisse, migliorò materialmente la propria vita; il crollo demografico fu man mano colmato a partire dal 1.500; gli orologi tornarono a scandire il tempo della vita cittadina europea; la cultura cominciò a ridare i suoi frutti più belli, anche nell’urbanistica e nella medicina. Insomma si tornò a vivere l’aria libera della città, riappropriandosi del tempo della socialità.

I corsi e i ricorsi storici insegnano che le cose cambiano e tornano per cambiare di nuovo; ne deriva che la speranza non può che essere sempre attiva e la consapevolezza di ciò dovrebbe invogliare a fare ciascuno il proprio meglio; oggi, nel corso della pandemia sars-covid, dovremmo innanzitutto saper dominare la paura per evitare di fare ulteriori danni e avvelenare ancor più l’aria; dovremmo nutrire la certezza che l’orologio scandirà di nuovo tempi precisi e di costruzione, con lo sguardo puntato all’orologio del Brunelleschi.