Oltre alle indubbie conseguenze sanitarie ed alle giustissime preoccupazioni per la tutela della salute di tutti, vecchi e giovani, possiamo senz’altro utilizzare questa imprevedibile e imprevista pandemia anche per considerazioni “altre” che attengono direttamente al nostro modello di sviluppo e ai valori propagandati negli ultimi decenni dal modello neoliberista.

In questa sorta di quaresima del capitalismo, in questi giorni di difficili crisi, contagi da virus, particolarmente aggressivi, fragilità e paure, radicali cambiamenti del nostro modo di vivere e lavorare, potrebbe risultare utile rileggere alcuni classici del novecento (Max Weber e Hans Kelsen tra gli europei, Gramsci, Spinelli, Calamandrei tra gli italiani solo per citarne alcuni). E primo fra tutti Keynes, de “La fine del laissez faire”, saggio che l’economista inglese scrisse nel 1926 da poco ripubblicato nei Meridiani Mondadori con una interessante introduzione di Giorgio La Malfa.

Già ad inizio del secolo scorso John Maynard Keynes nel considerare il capitalismo estremamente criticabile suggeriva la necessità di mettere in piedi una organizzazione sociale efficiente coniugata ad uno stile di vita soddisfacente.

Con straordinaria chiarezza indicava la strada che poi avrebbe portato al Welfare State, ad una forte ondata di finanziamenti pubblici nell’economia europea (vedi Piano Marshall), distrutta dopo i disastri e i crimini della seconda guerra mondiale, con a cascata una serie di provvedimenti mirati a migliorare salari, diritti dei lavoratori, sicurezza, qualità della vita e del lavoro.

Non perché non ci siano autorevoli autori contemporanei che insistono sulla necessità di legare sviluppo economico a migliori e più giusti equilibri sociali (tra tutti Stiglitz e Fitoussi) ma anche e soprattutto perché questa pandemia da coronavirus ha fatto carta straccia di tutti quei valori e simboli che avevamo messo in cima alla nuova piramide del progresso e del successo, riportando alla ribalta il tema della salute come diritto, bene pubblico, bene comune, valore primario della persona.

Non solo, lo stato di cattività in cui siamo costretti a vivere non si sa ancora per quanto, quale conseguenza della grave crisi sanitaria, ha ancora una volta evidenziato che la vita dei cittadini non può avere quale parametro di sviluppo l’efficienza finanziaria e comunque non solo quella, ma anche un giusto ed equilibrato sistema di welfare, con un sistema sanitario in prevalenza e comunque assolutamente pubblico, come quello italiano, aimè flagellato da continui tagli di risorse finanziarie e di riduzione del personale effettuati in nome dell’efficienza, che da solo sta reggendo l’urto di questa pandemia, contrapposto ad un sistema sanitario assicurativo e selettivo in base al reddito.

Naturalmente queste considerazioni sulla sanità si allargano sempre nell’ottica suggerita da Keynes anche a beni comuni ed essenziali quali l’istruzione, l’ambiente, la sicurezza.

Come ricordava Adriano Olivetti la fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti, deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia, come a dire a chi ancora oggi si ostina a non vedere che, competitività e inclusione sociale, produttività e solidarietà camminano insieme.

Ridisegnando così anche il ruolo della politica che ha l’obbligo ed a cui appartiene il diritto dovere di dare indicazioni sulle scelte di fondo, sull’uso del bilancio pubblico, sulle leve fiscali.

Bisogna riscoprire insomma l’economia delle regole, di ciò che tiene insieme le persone e determina lo sviluppo, la partecipazione, la condivisione secondo Federico Caffè teorico dello sviluppo sostenibile ma anche e soprattutto tra i migliori interpreti di Keynes e maestro di Mario Draghi.

Tra Noam Chomsky, tra i più accesi critici del neoliberismo, secondo quanto riportato in una recente intervista pubblicata dal news magazine Contropiano, i padroni dell’umanità hanno ucciso l’Europa delle vecchie democrazie trasformandola nell’Europa di Christine Lagarde.

La dittatura dei poteri forti, economici e finanziari, ha impedito e impedisce alla politica di essere democratica. Le democrazie del vecchio continente sono finite.

Cosi come il neoliberismo ed il fanatismo del libero mercato si appalesano dogmi bugiardi clamorosamente smentiti da quanto sta accadendo.

Per molti non è un caso che la pandemia da coronavirus si sia dimostrata particolarmente aggressiva nella parte industrialmente più sviluppata d’Italia dove le teorie neoliberiste la fanno da padrone ormai da anni.

Uno studio elaborato di recente da medici e ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale, che ha utilizzato i dati delle Arpa del Nord Italia insieme al numero dei contagiati evidenzierebbe una correlazione tra i superamenti dei limiti di legge del PM10 e PM 2,5 ed il numero dei casi infetti da Covid 19.

Secondo tali studi il PM 10 avrebbe esercitato una azione di “boost”, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia.

Nelle provincie dove ci sono stati i primi focolai, le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio u.s. potrebbero aver prodotto un’accelerazione della diffusione del Covid 19.

In sostanza il particolato funge da “carrier” per il trasporto del virus anche nell’etere, forse tanto quanto una stretta di mano.

Non vi è dubbio quindi che questa nuova pestilenza facendo carta straccia del nostro modello di sviluppo e di società ci costringe a ripensare le regole del nostro vivere civile, economiche e non.

Sotto altro punto di vista vorrà pur significare qualcosa, come ha efficacemente scritto Marco Revelli, il fatto che mentre tutti sono costretti a stare a casa o meglio a chiudersi in casa gli unici a dover uscire, mettendo quotidianamente a rischio la propria incolumità sono i lavoratori, quelli che lavorano con le mani.

Non solo. La pandemia ci dice da un lato, che tutto quello che avevamo posto al vertice della piramide sociale risulta in realtà accessorio, superfluo, futile, ma anche, che la tenuta e la sopravvivenza del paese Italia è affidata a quell’esercito di lavoratori che esponendo quotidianamente il proprio corpo al virus nei reparti delle fabbriche continuano ad avvitare bulloni, produrre mascherine, mantengono in vita le filiere della committenza internazionale.

Una moltitudine di cittadini che portano sul proprio corpo i segni della lotta al virus.

Come i lividi, lasciati dalle mascherine, sulla faccia di medici ed infermieri costretti a turni massacranti, gli sguardi spenti degli autisti delle ambulanze inchiodati come “servi della gleba ai loro mezzi di produzione”, spesso con contratti precari e salari da fame, proprio nel momento in cui coloro che avevamo messo in cima alla nuova piramide sociale, divi del calcio e dell’intrattenimento, capitani d’industria a cui abbiamo riconosciuto paghe milionarie, interessati solo al proprio interesse, fuggono verso altri paesi nella speranza di sottrarsi al virus.

Nuovi eroi moderni sicuramente da inserire nella lista dei peggiori di fronte all’emergenza.

In piena emergenza virus, a tal proposito, risulta emblematica la posizione assunta a metà marzo dal presidente di Confindustria Lombardia che ha reso pubblico un comunicato diffuso agli organi di stampa in cui dichiarava “ indispensabile la necessità di tenere aperte le aziende dando continuità a tutte le attività produttive ed alla libera circolazione delle merci”. Dichiarazione sottoscritta anche da numerose parti sociali.

Se è vero quindi che la pandemia da coronavirus è per l’Europa tutta la più importante sfida che si è chiamati a combattere dopo quella contro il nazifascismo, oggi come allora si avverte la necessità di ridisegnare nuovi modelli di sviluppo, riscrivendo regole più giuste e democratiche, il tutto condito da buoni gesti di solidarietà e di rispetto per i diritti di tutti, cosi come suggerito, primi fra tutti, da Keynes e Caffè.

Nella speranza come ha saggiamente scritto qualche decennio fa Gilles Deleuze di “diventare degni di quel che ci accade”.