La mattina del 17 ottobre 1980 un gruppetto di operai, dinanzi alla porta 3 di Mirafiori porta avanti inutilmente l’ultima protesta contro l’accordo sottoscritto dalle sigle sindacali confederali che avrebbe portato al licenziamento di fatto di 24 mila dipendenti.

L’intesa prevedeva la cassa integrazione a zero ore per quella moltitudine operaia. Cassa integrazione, quella siglata con Fiat, senza rientro come tutti sapevano e come poi puntualmente accadrà. E’ l’ultimo tentativo di contrastare l’accordo Fiat-sindacati siglato dopo 35 giorni dal più duro confronto operaio mai verificatosi in Italia e subito dopo la manifestazione antisindacale dei quarantamila quadri Fiat tenutasi a Torino il 14 ottobre del 1980. Infatti è proprio quella manifestazione che produsse l’effetto diretto di spingere le sigle sindacali a chiudere la vertenza con un accordo favorevole alla azienda torinese.

Con quel “patto” si sancisce definitivamente la frattura dell’unità dei salariati. Da una parte il ceto medio, i cosiddetti colletti bianchi e dall’altra le tute blu quelli della catena di montaggio.

Ma questa storia era iniziata già molti mesi prima.

L’8 maggio 1980, due giorni dopo l’insediamento di Vittorio Merloni alla guida di Confindustria, la Fiat già in crisi propose la cassa integrazione per 78 mila operai per otto giorni.

Il 31 luglio alla guida dell’azienda resta Cesare Romiti dopo le dimissioni del co amministratore delegato Umberto Agnelli.

Romiti, sostenitore della linea dura antisindacale si è già fatto apprezzare l’anno prima per aver deciso sempre ad inizio ottobre il licenziamento di 61 operai sospettati di contiguità con il terrorismo, accuse successivamente dimostratesi infondate dal momento che solo quattro furono le condanne irrogate per violenza in fabbrica.

Il 5 settembre dell’80 si apre un nuovo capitolo della crisi aziendale con l’annuncio da parte di Fiat della cassa integrazione per 24 mila dipendenti, 22 mila dei quali operai, per 18 mesi.

Dopo una settimana di difficili trattative la Fiat annuncia 14469 licenziamenti. Il consiglio di fabbrica per tutta risposta proclama lo sciopero generale bloccando i cancelli di Mirafiori e conseguente picchettaggio degli accessi.

L’apice della protesta si raggiunge il 26 settembre quando durante un comizio dinanzi alla fabbrica Enrico Berlinguer esprime agli operai il pieno appoggio del partito comunista italiano.

Il giorno dopo a seguito della caduta del governo Cossiga la Fiat sospende le procedure di licenziamento e si accorda con i sindacati confederali per la messa in cassa integrazione a zero ore per 24 mila dipendenti e prepensionamenti per quelli più anziani.

Il 30 settembre l’azienda consegna gli avvisi di cassa a zero ore a circa 23 mila operai sparsi per tutte le fabbriche del paese.

I sindacati contestano alla Fiat che i procedimenti di allontanamento risultavano mirati a colpire in gran parte i delegati dei consigli di fabbrica.

Il 14 ottobre, trentacinquesimo giorno consecutivo di mobilitazione un gruppo di impiegati e quadri, capitanati da Luigi Arisio si riunisce al Teatro Nuovo di Torino e sfila per le strade del capoluogo piemontese contestando il blocco e chiedendo di rientrare in fabbrica. Appena tre giorni dopo i sindacati firmano un compromesso al ribasso con il quale la Fiat ritira i licenziamenti e mette in cassa a zero ore 22 mila operai.

Romiti spiega quella decisione come l’unica possibile per il risanamento della Fiat.

Appena tre anni dopo nel 1983 Arisio viene eletto alla Camera dei deputati con il partito repubblicano e grazie al sostegno di Susanna Agnelli.

Per tutti gli anni ottanta a Torino non si assisterà ad alcuna altra protesta. Bisognerà attendere il 2 febbraio 1994 per veder nuovamente sfilare circa sessantamila persone che protestano contro l’ennesima decisione della Fiat di licenziare migliaia di lavoratori, tra cui 3800 impiegati e quadri molti dei quali alcuni anni prima avevano sfilato tra i quarantamila nel 1980. Tra i cassaintegrati Fiat figurano anche i due figli di Arisio, uno dipendente di Fiat Powertrain e l’altro di Comau, sempre gruppo Fiat.

Con quella marcia si sancisce la fine della democrazia sindacale come la si era conosciuta a partire dal 1968. Periodo durante il quale l’azienda aveva perso il controllo delle fabbriche.

Malgrado l’importanza di quegli avvenimenti i telegiornali dell’epoca raccontavano solo in pochi secondi la vertenza Fiat.

Erano pieni invece di altre lotte sindacali, quelle polacche in particolare, delle acciaierie di Danzica e Cracovia. Erano pieni di Lech Walesa e del suo sindacato Solidarnosc che sembravano ad un passo dal piegare il regime totalitario di Jaruzelski. Questi ultimi invadevano le città portando in testa ai loro cortei l’effige della Madonna Nera mentre i nostri sfilavano con il faccione di Carlo Marx.

E poi il lungo picchettaggio dei cancelli corroborato dal comizio dell’allora segretario del PCI che sollecitato da un delegato di fabbrica aveva affermato che il PCI avrebbe dato totale appoggio alle decisioni degli operai, non quindi del sindacato che già appariva diviso.

La divisione era evidente soprattutto tra il sindacato dei metalmeccanici e le segreterie nazionali di Cgil, Cisl e Uil. Uno strappo quello di Berlinguer che non piacque ad alcuni pezzi del Partito ed alla destra del PCI ma che non piacque nemmeno al segretario della Cgil Luciano Lama.

Malgrado alle assemblee di ratifica tenutesi nel piazzale di Mirafiori e dinanzi alle altre fabbriche l’accordo con la Fiat venne rifiutato, Lama Carniti e Benvenuto decisero comunque di firmare l’intesa.

A Termoli nessun sussulto se non che dopo poco tempo da quella intesa venne siglato un nuovo accordo con il quale uomini e donne del Molise furono costretti al terzo turno, a lavorare quindi anche di notte.

In altre fabbriche le cose andarono molto peggio. Molti lavoratori si suicidarono a causa della perdita del posto di lavoro.

Molti allora non colsero che la crisi da sovrapproduzione si poteva affrontare e risolvere non licenziando ma redistribuendo solidarietà sociale. Anni dopo infatti la Volkswagen in preda ad una crisi simile a quella di Fiat per non licenziare nessuno concordò una riduzione dell’orario di lavoro. In Italia si sarebbe potuto tentare una rotazione della cassa integrazione su tutti i dipendenti invece di decidere come poi avvenne l’espulsione definitiva solo di una parte di essi.

Con quella decisione chi era fuori perdeva il lavoro e chi restava al lavoro perdeva ogni diritto di fronte al potere dell’impresa.

Il centro di tutto non era più il lavoro ma l’impresa e con essa il mercato, il profitto, il privato.

Molti tra i dirigenti sindacali di allora colsero i rischi di quella vertenza, ma nel suo insieme il sindacato sembrò negare l’oggettività della crisi produttiva, il mutamento dei mercati e delle imminenti ristrutturazioni perdendo l’occasione di concludere alle condizioni possibili, una vertenza ormai divenuta insostenibile.