Hic et nunc. Qui ed ora. Un’esperienza collettiva unica, priva di precedenti negli ultimi anni, ci offre oggi lo spunto per esplorare un passato mitico, eroico, nel quale affondano le nostre radici più profonde, rimanendo, tuttavia, ancorati al nostro tempo e al nostro spazio. Intuire quel sottile legame mai interrotto, quella sensazione di umano riversata in secoli di opere letterarie a noi trasmesse, ci permette di non perdere mai di vista la nostra essenza. Diversa, ma essenzialmente intatta. È doveroso, certamente, rammentare il particolarismo proprio di ogni epoca e di ogni società, dalla remota antichità, ai giorni nostri. Ma siamo, poi, così cambiati?

Una kakè nousos, una “brutta malattia” sta devastando il campo acheo. Il “fior fiore degli eroi” si ritrova, suo malgrado, a dover subire i colpi di una misteriosa e devastante pestilenza. La gente muore e Agamennone, capo supremo degli Achei, si domanda il perché. Calcante, sacerdote e indovino dell’esercito acheo, lo rivela, senza mezzi termini: la terribile pestilenza è stata inflitta dai dardi Apollo, adirato per l’umiliazione a cui Agamennone ha sottoposto Crise, sacerdote a lui devoto. Egli, infatti, era andato a reclamare sua figlia, Criseide, catturata e resa schiava dagli Achei, ricevendo in risposta un netto rifiuto, con tanto di minacce da parte di Agamennone. Pertanto, il flagello cesserà soltanto quando la fanciulla sarà restituita, senza riscatto, a suo padre.

Ci troviamo nel primo libro dell’Iliade di Omero (o di chi per lui), durante il decimo anno di una guerra che non sarà mai dimenticata dai posteri: la cantatissima guerra di Troia. E così, l’esordio della letteratura greca, l’alba di tutta la cultura occidentale, si apre con una malattia. Uno stigma, nel senso etimologico della parola: una macchia. Non importa se sei il più valoroso combattente dell’esercito, nessuno è immune.

Omero lo chiama λοιμός (loimòs), parola greca che indica, propriamente, il “morbo epidemico”. Discussa la sua etimologia: si accosta, generalmente, ad altri due termini strettamente correlati, vale a dire λοιγός (loigòs), “flagello” e λιμός (limòs), “fame”, “carestia”. Quanto più è arduo spiegare il fenomeno linguistico alla base della formazione di questi lemmi a partire da un’unica radice indoeuropea, tanto più risulta chiara l’affinità: cosa sono la malattia, la fame se non un flagello? O una carestia, cos’altro è, se non la conseguenza di una mortifera epidemia, o viceversa.

Età classica, V secolo. A teatro, cassa di risonanza dei valori della polis ateniese, va in scena l’Edipo Re. Il suo autore: il genio di Sofocle, l’uomo e l’artista che ha vissuto come nessun altro la gloria e la decadenza della potenza ateniese e le ha tradotte in tragedia. Il dramma si apre con una richiesta d’aiuto: Tebe è in ginocchio, un misterioso male sta decimando la popolazione. Una delegazione di cittadini di ogni età, guidata da un sacerdote, chiede al buon re Edipo di venire ancora una volta in soccorso alla città. Il saggio ed eroico re Edipo, infatti, aveva già liberato Tebe dal flagello della Sfinge: un mostro, che stazionava all’ingresso della città, sottoponendo i passanti ad un enigma. Per chi non avesse risposto, nessuna pietà. Edipo rispose, liberò la città, e sposò Giocasta, la regina di Tebe. Era sua madre, ma lui non lo sapeva. Non sapeva nemmeno di aver inavvertitamente ucciso suo padre, Laio, re di Tebe, marito di Giocasta. Ma l’incesto, ormai, è compiuto, Edipo ha sovvertito l’ordine naturale delle cose e fin quando Tebe non sarà liberata dal contaminatore, non importa se inconsapevole, fin quando il destino di Edipo non sarà compiuto, la macchia resterà impressa. Il contagio non allenterà la sua morsa.

Lo spettacolo tragico dovette suscitare nel pubblico ateniese un certo effetto: qualche tempo prima della rappresentazione, durante il secondo anno della guerra del Peloponneso, 430 a.C., una sconvolgente epidemia afflisse Atene. Terrore, sconcerto, morte, impotenza. Tucidide, nelle sue Storie, espose la sintomatologia con tutta la lucidità e la scientificità di chi avrebbe voluto risalire ad una causa, ma non ne aveva i mezzi. Una minuzia tale da essere definita nei manuali “rivoluzione scientifica del pensiero storiografico”. Il poeta Lucrezio, nel versante della letteratura latina di I sec. a.C., ricalcherà proprio gli strumenti esegetici di Tucidide per la sua descrizione della peste di Atene inserita nel VI libro del De rerum natura. Ma ne aumenterà il pathos, ponendo l’accento sul dramma psicologico e sul ritorno alla bestialità di un’umanità disfatta, smarrita, sconfortata, a cui resta solo la morte, unica certezza.

Di fronte alla rovina, le comunità, di ogni tempo, di ogni luogo, vacillano. La caducità della vita smarrisce, stupisce. È necessario resistere, curare: indagare, dunque, la causa scatenante. Ma non si tratta di un’eziologia medica, tanto nell’Iliade, quanto nell’Edipo re. Nel capolavoro omerico la causa sta nella superbia del singolo: la trasgressione religiosa da parte di Agamennone. Nella tragedia, invece, nella trasgressione morale: il contagio deriva dalla singola persona di Edipo, spiritualmente infetta. Ma il morbo si insinua nell’intera comunità, molto più compatta rispetto alla nostra tendenzialmente individualista. D’altro canto, Tucidide propone una lettura scientifica, più vicina, probabilmente, alla nostra sensibilità. Due diverse modalità, dunque, di leggere le cause della malattia. Ma la nostra razionalità scientifica è, davvero, l’unica possibile? Esiste, pur sempre, un ordine insito anche in una visione sacra del mondo. In tutte le società convivono, da sempre, atteggiamenti razionali e pulsioni che oggi definiremmo irrazionali o addirittura superstiziose. Ogni accidente possiede, chiaramente, una causa fisiologica, qualunque sia l’epoca. Ma in che misura essa si intreccia con le scelte dei nostri “Agamennone” e con i comportamenti di ogni individuo? O, ancora, quanto si incontra con le nostre credenze religiose e con la tendenza tutt’ora attuale di inquadrare i fenomeni in un’ottica provvidenzialistica? Un dibattito più che attuale e che ci induce ad una profonda riflessione. Ecco il dialogo con l’antico: imparare a riflettere, percepire quel filo ininterrotto, ma senza imprudenti decontestualizzazioni. Ogni epoca e ogni comunità con la propria identità.

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