All’arrivo di un nuovo libro si guarda sempre con piacere e interesse. Specie se a firmarlo è un amico di lunga data, di quelli con i quali non te la puoi cavare con i complimenti di rito. Piacere e interesse sì, ma anche un senso di inquietudine davanti alla prospettiva di una recensione che dovrebbe fare i conti con il libro, con i pregi e i difetti inevitabili, e non solo con gli anni, per non parlare di decenni di ininterrotta amicizia, che fanno di tutto per frapporsi alla redazione di una recensione obbiettiva.

A procurare piacere, interesse e inquietudine è stato l’ultimo lavoro di Pasqualino Licursi, sia perdonato il diminutivo. E in questo caso ultimo lavoro non è una comoda locuzione, un cliché abusato, visto che Madre Terra, dal sottotitolo catalogato come preghiera laica, con le iniziali rigorosamente minuscole, è stato preceduto da ben dieci pubblicazioni di poesie, saggi critici e antologici, racconti, romanzi, che si sono succeduti da un quarto di secolo in qua con la cadenza dei titoli e delle date riproposti in bell’ordine in terza di copertina.

Ad acuire piacere e apprensione, ci pensa la firma in calce alla Presentazione, stilata dall’amico fraterno Michele Castelli, già preside del dipartimento di Letteratura straniera, presso l’Università Centrale di Caracas in Venezuela, nonché ambasciatore del Molise nel Mondo e studioso infaticabile e appassionato del dialetto della sua terra, Santa Croce di Magliano, e del suo cittadino più illustre: il disegnatore, poeta e letterato, nonché medico e benefattore, Raffaele Capriglione (1874-1921), che grazie proprio alle attenzioni critiche di Castelli e alla sua Antologia poetica, pubblicata in Venezuela nel 1984 e successivamente giunta alla terza edizione, comincia a essere finalmente riconosciuto per quello che è: uno dei migliori, se non il miglior poeta dialettale molisano.

Madre Terra, dunque, e prima ancora di aprire il libro, la mente corre alla Gea o Gaia dei greci, alla Mater Matuta degli etruschi, alla Alma Tellus dei romani, alla selva di nomi e figure che presso tutti i popoli della terra hanno onorato il culto della Grande Madre dal tempo dei tempi. Si riconcede il piacere di ritornare per un attimo alle favole eterne, come quella dell’anziana coppia senza figli, Deucalione e Pirra, che smarriti e soli dopo essere scampati al diluvio universale, interpretarono bene e dettero esecuzione al precetto dell’oracolo di Temi, che aveva ingiunto loro di lanciarsi alle spalle “le ossa della grande madre”, cioè della Terra, le cui ossa sono le pietre, che una volta toccato il suolo si tramutarono in uomini e donne che ripopolarono il pianeta.

Preghiera laica, quindi, indirizzata alla dea primordiale, alla potenza divina della Terra da un uomo che “non lascia denaro o case, terreni o appartamenti, ma poesia da guardare e versi da leggere” e lascia ricchezze senza tempo e senza età”, come si legge in quarta di copertina?

Una immediata e fondamentale risposta è stata data dal caso che per il primo assaggio di lettura ha aperto il libro a pagina 24, restringendo come si deve i voli pindarici della fantasia sul nostro mondo, sul mondo che è sotto i nostri occhi e di norma non vediamo, benché non meno suggestivo.

Ho visto – scrive Licursi – da dietro la porta dello stadio comunale un uomo volare. Usciva dallo spogliatoio a testa bassa come se avesse vergogna di essere applaudito dai tifosi che non avevano preso il caffè per essere lì, sul cemento e in tribuna. E salutava con la dolcezza del predestinato. E si andava lì non per vedere la partita ma semplicemente un momento della partita. Quando da lontano arrivava la palla e lui iniziava a volare. Tutto in pochi secondi ma per chi era lì il momento non finiva mai. Staccava da terra senza alzare polvere e anche lo stopper si fermava a guardare. Prendeva una sedia e si godeva il momento. La gente smetteva di respirare. Ed era tutto in moviola, come se davvero quel gesto non finisse mai. Saltava con la leggerezza di un ballerino ed era un movimento perfetto, come se l’avesse studiato l’intera settimana e invece ce l’aveva nel sangue. Quando gli chiedevi come facesse ti guardava e sorrideva e non sapeva spiegare. Era istinto. La bellezza di quel gesto era che tutti giravano il corpo per accompagnare la palla. Tutti si muovevano come lui, come se l’azione non fosse semplicemente sua ma di tutti quelli che erano lì. E restavano sospesi nell’aria, proprio come lui. E la cosa stupefacente era che la faceva ad occhi chiusi. Partiva la palla e chiudeva gli occhi. E quando li chiudeva immaginava la traiettoria e la vedeva semplicemente col cuore. Ancora più stupefacente era che tutto il pubblico, bambini compresi, chiudevano gli occhi insieme a lui e li riaprivano solo quando l’azione era finita e la rete si gonfiava di pallone. E solo allora riaprivano gli occhi. Quando finiva il sogno. Con lui che sorrideva.

Beh, questo è un brano che non si scrive e non si legge tutti i giorni. Freschezza e leggerezza deliziose. Poesia in prosa, che è come dire magia di parole che invitano a non rimandare oltre la lettura del libro, ma a prendere una sedia e a goderselo, mettendo da parte gli impegni soliti, anzi dimenticandoli, proprio come fa lo stopper ammaliato dall’attaccante che vola. Del resto, già venticinque anni fa, fin dai versi di esordio, Pasqualino Licursi aveva incuriosito un poeta e fine intenditore di poesie quale Nicola Iacobacci, che si era incaricato di presentare assai cordialmente la raccolta Sposerò una farfalla (1996).

Tutto bene dunque? Forse (o senza forse) è giusto muovere almeno un appunto. Non convince la scelta della interlinea abbondante che, nella sua singolarità, pare suggerita solo dal desiderio di dare maggiore consistenza al volume con le sue 145 pagine. Come se la poesia, o la letteratura, debba vendersi a peso o a pezzatura. Ma a pensarci bene, chissà che non sia stato giusto così. Diversamente il caso, come avrebbe fatto a sottoporre agli occhi curiosi del lettore la pagina 24 e a farla coincidere con l’incanto, l’incanto letterario s’intende, dell’uomo che volava?