Oggi intervistiamo un caro amico e poeta contemporaneo, autore di Si prega girati di schiena, Marco Saya Edizioni, uscito nel 2020 che vive ad Orta Nova in provincia di Foggia dove è nato nel 1980. Ha fondato la rivista di poesia Avamposto.

 Nella tua poesia ci sono falene, lune, mari, pietre, odori, papaveri, ossa, gazze, alberi… È un mondo immerso nella Natura, dove questa appare come spazio acquatico, amniotico, nel quale tu sei immerso e in cui tutto può accadere. E’ un territorio mistico.
Come SENTI tu la Natura?

E’ una domanda che non mi sono mai rivolto. Adesso che ci penso, non ho un atteggiamento particolare nei confronti della natura… perché me ne sento parte. In pratica, non la penso: la vivo. Sin da bambino ho avuto la fortuna di stare a contatto diretto con animali, piante e alberi. Erano compagni di gioco. Gli olmi, soprattutto. Con loro ho avuto un rapporto particolare. Offrivano riparo dal sole nei miei pomeriggi estivi. Ecco, se proprio devo pensarmi in un luogo, allora è sotto un olmo che vorrei stare.

Conosci qualche adolescente? Hai modo di interagire con i ragazzi? Pensi che loro siano più sensibili degli adulti verso queste tematiche?

Tranne che per alcuni casi, non vedo una grande sensibilità degli adolescenti verso questo tipo di tematiche. A differenza di quelle passate, le nuove generazioni si trovano a vivere un paesaggio sovraffollato, caotico. Il loro sguardo è sempre catturato da qualcosa che si muove; così pure la loro attenzione. Gli stimoli percettivi e sensoriali sono talmente tanti che diventa quasi impossibile, per loro, astrarsi. Solo il ripiegare su sé stesso permette all’uomo di percepirsi come unità singola collocata in un tutto più ampio: la natura, appunto.

Tu che hai modo di leggere molto i poeti contemporanei e hai dimestichezza con le tendenze poetiche attuali… su quali tematiche si concentra la ricerca poetica oggi? I poeti, rispetto al passato, sono più o meno interessati alle dinamiche che accadono al di fuori del loro mondo interiore?

La poesia è isolamento e contemplazione. Il poeta vive dal di fuori ciò che gli succede intorno: osserva. Il nostro tempo, però, è fatto di partecipazione attiva al processo produttivo. Oggi, l’ozio letterario non è possibile. Quindi, il poeta – a meno che non scenda a compromessi e accetti un posto nella catena di montaggio – si trova a vivere ai margini della società. La sua opera non viene riconosciuta poiché non produce reddito. Ma egli non può fare a meno di scrivere e di opporre, costantemente, l’inutilità delle proprie parole all’utile generato dal lavoro altrui. Dunque, la tematica su cui, oggi, i poeti dovrebbero concentrarsi riguarda l’identità e – conseguentemente – la sopravvivenza della poesia.

Mi sapresti suggerire qualche poeta che ha una particolare sensibilità verso la Natura, l’ambiente, il climate change?

Alfonso Guida. C’è, nei suoi versi, una spiccata propensione paesaggistica. Alfonso, però, non tratta la natura come mera cornice o sfondo. In Guida ogni elemento naturale è “soggetto” poiché partecipa al significato del testo. Quando sono andato a trovarlo, a San Mauro Forte, ricordo gli erbari e i manuali di botanica presenti sulla sua scrivania. E’ forte, in lui, l’esigenza di chiamare ogni pianta, albero o arbusto con il proprio nome. Così individuabili, gli elementi naturali, diventano più “umani” e quindi ancora più vivi nella vita dell’uomo, e della poesia.

Tu scrivi: Saremo come foglie messe al taglio della prima luce», mostrando contemporaneamente la nostra caducità, la nostra possibilità di splendere e ancora l’unicità del nostro essere, la dignità di essere esposti tutti ugualmente ad una luce primigenia…

Ciascun individuo porta in sé il mistero della creazione. La lucentezza divina, quella dei primordi, offriva una traccia di significato alla vita umana. Perdendo la capacità di offrirsi a quella luce, l’uomo ha anche smarrito il senso del proprio esistere. Dovremmo tornare a rispondere “Eccomi” alla chiamata di Dio, così come facevano i patriarchi dell’Antico Testamento. Riaccogliendo la luce divina, senza nulla chiedere in cambio, potremo partecipare nuovamente al mistero del creato e, allo stesso tempo, acquisire consapevolezza del mistero che ognuno conduce in sé.

Anna Maria Ortese in Corpo celeste del 1997, scrive: «Sono lieta […] di essere qui a dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. Nei suoi paesi, anche nei suoi boschi, nelle sorgenti, nelle campagne, dovunque siano occhi, anche occhi di uccello o domestico o selvatico animale. Dovunque siano occhi che vi guardano con pace o paura, là vi è qualcosa di celeste, e bisogna onorarlo e difenderlo. So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo».
Sei d’accordo?

Sì, assolutamente. L’uomo è troppo piccolo per rinchiudere, nel recinto della propria specie, il concetto di vita. Che si abbracci la teoria evoluzionistica, o il racconto della Creazione, l’uomo è comunque comparso dopo. La “vita” lo ha preceduto, anticipato, e – se vogliamo – annunciato. Questo, però, non gli conferisce il diritto di elevarsi al di sopra della natura asservendola ai propri scopi – a meno che non siano quelli della mera sopravvivenza. Lo sfruttamento senza misura delle risorse naturali sta uccidendo il pianeta. Ma la natura può vivere senza l’uomo. Dovremmo chiederci se è possibile il contrario.

“Ma perché poi le stelle
e i girasoli se di tutta
questa vita basta appena
un buco
per sorprendersi? “
Questi per me sono i tuoi versi più suggestivi. Parlami del buco… È un varco montaliano?

Quel buco rappresenta uno scavo nell’interiorità. La poesia è sempre un’arma rivolta contro sé stessi. Un testo poetico non finisce con il punto posto alla fine dell’ultimo verso. Anzi, è proprio lì che ha inizio, poiché la poesia – da quell’esatto momento – comincia a rivolgersi contro chi l’ha scritta. Allora, esattamente come un proiettile, attraversa il corpo del poeta aprendo un varco nel quale, egli stesso, può guardare. Ma un proiettile sparato da vicino, molto probabilmente, passerà il corpo da una parte all’altra. Quindi, oltre al foro di entrata, ce ne sarà uno di uscita che permetterà al poeta di guardare oltre sé stesso e stupirsi della vita che vive oltre la propria.

Grazie a Giuseppe Todisco per queste sue riflessioni che manifestano la sua ben nota sensibilità di poeta e uomo del nostro tempo.