Nei giorni scorsi mi sono imbattuta in una lettura interessantissima: “La vita delle immagini” di Charles Simic. È stata una vera e propria immersione nel mondo di Simic, costellato di ricordi di vita e di riflessioni di livello altissimo sulla poesia.

Una pagina mi ha incuriosito particolarmente e mi ha illuminata, direi.

Simic pensa che uno dei motivi per cui il rapporto uomo – Natura non sia risolvibile in termini di rispetto e compartecipazione è dovuto al fatto che storicamente noi uomini siamo abituati a interpretare la Natura con il filtro dell’idealizzazione e dunque non riusciamo ad osservarla in termini realistici e oggettivi, perché continuiamo ad essere troppo condizionati dal millenario concetto di locus amoenus di matrice letteraria.

Ho pensato e ripensato alle sue parole talmente tanto che, una notte, ho sognato di fargli un’intervista a cui lui mi ha risposto con grande premura e precisione.

Signor Simic, ci può spiegare perché lei afferma che la Natura idealizzata le è sempre apparsa un paradiso artificiale?

Il termine Natura ha sempre avuto per me, ragazzo di città, una gradevole connotazione didascalica. La Natura era un luogo dove le nostre madri e le nostre insegnanti ci portavano di tanto in tanto per farci prendere un po’ di aria buona. Ci conducevano in un punto con un mucchio di alberi e una vista amena e ci ordinavano di respirare a fondo per ripulire i polmoni dall’aria viziata della città. “Ah, com’è bella la natura!”, esclamavano la mamma o la maestra. E noi fingevamo di dar loro ragione e intanto pensavamo: Times Square di sabato sera, là sì che è bello! Mi ha sempre attirato di più la grande città, con la sua folla, il traffico, i cinema, i bar, jazzclub, i mendicanti, gli scippatori e, perché no, l’odore di salsiccia fritta.

Quindi, secondo lei, la Natura non è un luogo in cui rigenerarsi e sentirsi meglio…

La natura è dove abitavano i bifolchi, gli idiotikoi come gli antichi greci chiamavano i tapini che vivevano fuori dalla polis.

Come la mettiamo con il contadino, al di là dell’incantevole prato, che sgobba dall’alba al tramonto sette giorni su sette e fa una vita di stenti? E con sua moglie, sempre malaticcia, e il loro figlio, che si diverte a torturare i gatti? Come era solito dire mio padre, se la vita in campagna fosse tanto bella, le città non sarebbero così sovraffollate.

Allora lei non vivrebbe mai in campagna?

Adesso naturalmente abito in campagna, sto nel New Hampshire da quasi vent’anni e nelle mie passeggiate per i boschi m’imbatto regolarmente in Emerson e Thoreau. Ci facciamo un amichevole cenno di saluto e proseguiamo ciascuno per la sua strada. È vero, li ho spesso presi in giro alle loro spalle Ma non sono mai riuscito a liberarmi dall’idea che la Natura mi stia lentamente uccidendo.

E che soluzione propone dopo averci confidato questa sua consapevolezza?

Io personalmente preferisco l’ottica cosmica. Mi affascinano gli infiniti e i silenzi dell’astronomia moderna e del pensiero pascaliano, di fronte ai quali il cervello si raggela, se non che io sono anche un figlio della Storia. Ho visto con miei occhi carri armati, pile di cadaveri, gente impiccata ai lampioni. Quanto alla cosiddetta Natura essa è un prodotto delle utopie romantiche: il buon selvaggio, Rousseau, il paradiso terrestre alla maniera di Gauguin, i progetti di Charles Fourier, i nostri trascendentalisti e via dicendo: al posto della città d’oro, un pascolo lussureggiante dove ruzzano felici umani e agnelli.

Si tratta sempre della macchina contro il giardino, della libertà contro la prigionia, di Dio nella natura e il diavolo nella città.

Ci lascia del tutto attoniti…

Le farò io una domanda adesso: esisterebbe la letteratura moderna senza la città? Si può scrivere di Storia senza entrare in conflitto con la Natura? Molti poeti pensano di sì, ma io ne dubito. In attesa di risolvere questi dilemmi, nei pomeriggi estivi è altamente consigliabile farsi un pisolino sull’amaca…

Mi chiede una soluzione: io, tardonovecentesca vittima di tutte le impreviste conseguenze di tutte le utopie degli ultimi due secoli, ho orrore delle generalizzazioni, specie se ammantate di buone intenzioni.

Ma le dico questo: La Natura come esperienza – per esempio fare un’insalata di pomodori con mozzarella fresca, foglie di basilico olio di oliva – è meglio di qualsiasi altra teoria sulla Natura.

“È l’osso duro sul quale la ragione si spezza i denti” scrive Machado parlando dell’alterità di tutto ciò che vediamo. E non solo la ragione, mi viene da gridare, ma anche il cuore. Di fronte all’Essere, alla Natura e perfino alla Storia, siamo tutti sdentati.

Per fortuna, esistono i sogni…