La curatela di questa nuova opera di Domenico Lanese, di una edizione, insieme ad altre persone della Associazione culturale “Lagrandeonda”, di una serie di detti e proverbi che fanno parte della cultura sanmartinese e di tutto il meridione, sono qualcosa di appassionante che ci rimanda inesorabilmente al modo di pensare dei nostri nonni e dei nostri genitori. Alcuni di essi sono conosciuti in tutta l’Italia, sopratutto fino a qualche decennio fa, e caratterizzavano un modo di comunicare immediato ed efficace, che probabilmente sopperiva alla mancanza di scolarizzazione della gente del popolo, di contadini e artigiani, di madri e di padri e di tutto coloro che si sentivano di dare un messaggio, un insegnamento morale o pratico senza incertezze. Di qui le proposizioni brevi e icastiche, scandite dal ritmo e dalla rima; le immagini estrose; l’enfasi di un discorso che, per essere memorizzabile, deve essere appunto “memorabile” e facilmente “memorizzabile” e di qui, come si diceva, il ricorso alle frasi fatte. Che i proverbi siano un genere orale è ribadito dal loro abbandono, parallelo alla diffusione della scrittura. L’ultimo adagio è forse «Donne e motori, gioie e dolori»; o forse, qualche spot che è entrato prepotentemente nel nostro immaginario e conseguentemente nel nostro linguaggio, ancora spesso condito di frasi fatte. Il patrimonio e i contenuti sono i più vari; ci sono dei veri e propri campi tematici, che possono andare dalla religione alla famiglia, dalla meteorologia e ai cicli del raccolto nel mondo contadino, dal precetto morale alla battuta di spirito, al rapporto con le altre persone e con gli animali. La formulazione originaria è quasi sempre scaturita da circostanze che si sono perse nella notte de i tempi; d’altronde, «origine» significa «uscita dalla bocca» (latino os-oris ‘bocca’ e gignere ‘nascere, uscire’). Al di là del tono sentenzioso, il proverbio ha una carica espressiva che va ben oltre il promemoria didattico e che trova conferma nell’etimologia (secondo il vocabolario dal latino proverbium, derivato da verbum ‘parola’, con il prefisso pro-). Il proverbio è dunque «la parola», la prima cultura dell’uomo, che esplora e interpreta il mondo e affida le sue «scoperte» a ricette mnemoniche adatte alla trasmissione orale. Ne viene che il patrimonio gnomico è una miniera per la ricerca antropologica e linguistica, anche perché conserva le tracce di epoche lontane. Pensate solo che uno dei libri che compongono il corpus della Bibbia e, appunto, quello dei proverbi, su cui discutevo insieme a Don Nicola Mattia in alcuni nostri incontri. Naturalmente la testimonianza orale è infida: non ha profondità storica; dipende dalla memoria; è aperta all’intromissione dei parlanti, non esclusi i proverbi, che pure – con la toponomastica – sono il settore meno variabile dell’oralità. Occorre cautela nell’analisi, tenendo conto che i proverbi hanno comunque subito un processo evolutivo: in seguito a mutamenti politici, a contatti con altre popolazioni, all’intervento di persone colte, che una volta non disdegnavano il vernacolo. E si sono variamente adattati, soprattutto nel traslato, che può avere risvolti differenti da luogo a luogo, da un tempo all’altro, dall‘una all’altra classe sociale. La circolazione dell’adagio (e di tutta la cultura orale) è stata molto più intensa di quel che verrebbe fatto di credere: ne sono una spia lo stesso dettato in regioni e lingue diverse e le voci forestiere, «naturalizzate» nel repertorio corrente. Buon senso e verità. Un repertorio pieno di buon senso, dedotto dall’esperienza e non da una «ricerca della verità», estranea ai proverbi; come dimostrano le frequenti contraddizioni, per esempio: dulcis in fundo – in cauda venenum. E di questo, a mio parere, erano consapevoli gli stessi nostri antenati. A questo immenso e mobile corpus di sapienza popolare si può guardare da tre punti di vista: espressivo, «sapienziale», psicologico. All’espressività ho accennato; aggiungo che non solo è la cifra originale di questa «letteratura», ma che l’abitudine a «parlare per proverbi» ne traeva una sorta di romanzo paesano (vengono in mente I Malavoglia del Verga). Anche alla funzione sapienziale ho accennato (e ai suoi limiti ); bisogna invece approfondire la componente Psicologica. E’ stato detto che i proverbi sono formule di comodo, adattabili ai casi della vita e poste sotto l’autorità della tradizione: non lo dico io, lo dicono gli antenati, dunque è vero. E poiché l’uso stigmatizzava fatti già sperimentati, la citazione rassicurava e faceva arrivare il messaggio in maniera efficace e precisa, sopperendo di fatto anche alla non cultura di chi lo citava e cercava di insegnare “la giusta via” magari ai propri figli o ai nipoti. Senza contare che la disponibilità di un siffatto espediente non soltanto aiutava la memoria, ma facilitava i rapporti sociali: che è un’altra forma di rassicurazione. Tanto più che il popolo parlava la sua lingua e ostentava uno stile infiorato di umorismo e di volgarità. Perché? Il mondo alla rovescia? A parte la rispondenza fra modo di vivere e modo di esprimersi, si è pensato a una «innocenza lessicale», a un’età dell’oro in cui le cose erano chiamate con il loro nome. E si è immaginato che l’indole dei nostri contadini fosse istintivamente incline all’ironia e alla satira. Ma il fenomeno ha tali dimensioni ed è talmente diffuso che non può non avere altre motivazioni. Direi che vanno ricercate nel «mondo alla rovescia» delle classi subalterne, evocato da Rabelais nella sua opera e di antichissime origini: i Baccanali, i Saturnali e (giunto stentatamente fino a noi) il Carnevale: una reazione al potere e alle sue imposizioni; se vogliamo, un segnale di libertà. Delle espressioni volgari va ancora detto che sono temperate da un senso dell’humour a volte finissimo e sempre spontaneo; così che molti scrittori, spinti da un bisogno di immediatezza, si sono rifatti ai proverbi. Al contrario, molti versi (p.es. della Divina Commedia) sono stati memorizzati dal volgo: convergenze fra cultura «alta» e cultura «bassa» non impossibili, nella alterità e irriducibilità dei due registri. La tradizione Nelle antologie sono confluiti «proverbi d’autore», ripresi cioè da libri d’intento morale o poetico. La forma è indubbiamente analoga, ma tutt’altra la «filosofia», com’è implicito nel rapporto con la tradizione. I proverbi dialettali ne sono una parte cospicua; ne sono anzi un prodotto, germogliato in maniera anonima e collettiva, trasmesso riveduto integrato nel corso di una lunga vicenda orale. La tradizione è dunque aperta al cambiamento e non limita la libertà dei singoli, che si riconoscono in un «testo» di cui sono coautori. La distanza fra comunità degli antenati e individualismo contemporaneo è incolmabile; i tentativi di riprendere i proverbi (di attualizzarli, di illustrarli, di dipingerli) scadono nel folclore, come i cortei in costume che vorrebbero evocare lontani accadimenti e ne sembrano invece la parodia. Oggi possiamo (anzi dobbiamo) avvicinare (studiare) i proverbi sul piano storico, per comprendere un mondo di cui sono genuina testimonianza. Rubo un’ultima battuta a Jorge Luis Borges, che scrisse del suo luogo natale: “Abitavo qui già prima di nascere”. L’immagine rimanda ai proverbi, perché l’identità si innerva nella tradizione orale, di cui i proverbi sono il fiore. ma i proverbi avevano l’immediatezza del messaggio, senza troppi filtri o discorsi e ciò faceva comodo a chi non sapeva organizzare un discorso compiuto: l povera gente appunto! E i poveri imparavano dalle immagini (ad esempio le sculture religiose delle facciate delle cattedrali, “Bibbie dei poveri” appunto,o i dipinti all’interno delle chiese, così come trasmettevano con le “immagini” dei proverbi tutta la loro esperienza che non avrebbero saputo trasmettere altrimenti. La lettura dei proverbi allora diventa una porta da aprire su un mondo e su società che erano appena di qualche decennio fa e che noi, nel nostro affannarci a correre dietro le innovazioni, abbiamo perso, così come abbiamo perso la capacità di sentire odori e sapori e di vedere le albe e i tramonti.

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