anche
il killer ha un tallone
come
quell’Achille lì
ha perfino
un gomito un ginocchio
un piede
delle dita
almeno un occhio
per prendere la mira
ha polmoni e frattaglie
solo il cuore è strano
dovendo forse fare
cose assai misteriose
come aprire e chiudere
in pochi secondi
il minuto finale
un qualcosa che si sa
per un killer
di norma
è sempre l’ultima cosa
in ordine
di tempo e di spazio
a veder morire

Il gioco è trasportare, nel titolo, il più che buono vento romanzesco del Gabo su queste colonne discutibili, da dove il discolo produce robe tra il depravato e il deprecabile, discutendo di sé, narcisisticamente, e dei cattivi e buoni propositi che lo animano, ma non certo dal punto di ospitalità dell’anima, bensì di ben altre animazioni. Il gesto del Gabo era/è uno storico colera, la nostra attualità ci riporta al malanno, che è come dire il morbo, il male, il malessere, ma anche il disastro, la sciagura e coniugarlo con lo spessore di un annuale percorso, particolarmente duro, complesso, difficile, normale da meritarsi l’unione con una sorta di maleficio, così da diventare malanno, niente altro che malanno. Dove probabilmente si lega, come luogo di poca generosità mentale, alla fragorosa presenza di una secolare superstizione che vuole, nel bisestile, l’annualità più che peggiore, commettendo così un eccesso giammai approvato in grammatica dai buoni e bravi controllori della lingua.

Siamo così giunti in una sorta di mistero glorioso e assai poco interpretabile, dove conduciamo vite da eremiti, salvo gironzolare di lungo e largo sugli schermi dei nostri apparati genitali, soggetti video soprattutto e qualche altra diavoleria a fari elettrici. E’ dunque questo il nostro destino? Ci ritroveremo di cervello fritto per tutto questo secolo? Ci arriveremo giammai al prossimo? La virulenza avanza incessante, vien fuori un mostriciattolo al giorno che ci miete negli affetti, ché ci allontana da tutti, mogli, mariti, amanti, amici, noi stessi, perfino cani e gatti e lucertoloni, per chi li conserva nelle teche di vetro. Insomma il solito virus al giorno che ti toglie le persone di torno, che ti sbatte lontan, magari su un picco innevato, una foresta comunque malata, una spiaggia di plastica e rifiuti vari, una città di cassonetti e porcherie. Dunque si vive così, adesso? Si contano danni certamente collaterali in tv e non si ha voglia di fare niente? Perché poi davvero niente si fa, se non il solito blabla, dove ti promettono cose complicate che sarebbero semplici e realizzabili con un schiocco di dita. Che vite senza conclusioni e senza un’unghia di speranza. Siamo qui tutti, nessuno escluso, incredibili nella immensa, mastodontica idiozia collettiva. La Stupidità, monumento nazionale, mondiale, galattico. Il trionfo dell’abulia, del non ci ho un cazzo da fare? Esser prigionieri è duro, ne sono più che convinto. Finale perfetto. Ultimo episodio. Stop. Intanto nel prequel ci giriamo i pollici in questo pomeriggio dove tutto si percepisce strano: cielo con un rosso strano, che si mischia ad un grigio strano con nuvole strane, assolutamente non bianche, e con uno stranissimo sentore d’aria. Non so, è come l’odore dopo il vomito da sbornia di birra scadente. Una bruttura. Veramente non scorre niente di buono, in questo buco nero che fa diventare tutto notte, pitturando di cielo notturno tutte le visioni, pure quelle autenticamente decenti. Un tuffo nel nero, come di inchiostro indelebile, di fumo da plastica bruciata, di incubi da film orribilissimo. Andiamo avanti o forse indietro. È lo stesso.

Dunque siamo all’Era dell’Amuchina. Dopo la pietra, il ferro, l’oro e l’aspirina, siamo allora arrivati all’Era dell’Amuchina. Eh si. Flint dice che costa un casino, molto più del miglior vino di Francia, che si sa è il più costoso, più del cognac invecchiato mille anni, lo stesso che beveva Carlo Magno forse nei teschi dei nemici. Amuchina nei sogni della gente, per il rito di sentirsela appiccicosa fluire sulle mani, gel miracoloso, pozione divina antimalanno, giusto antidoto alla eventuale schiattezza, nel senso dello schiattare, defungere, andare a miglior vita, togliersi di torno, kaputt, fanculo, fanculissimo. Amuchina, si, da desiderio a mille e mille e mille.

Intanto ci spariamo in corpo getti di Amore, come fossimo arrivati alla più completa amorevole tossicità. Capsule, fiale, arie compresse, supposte, iniezioni, inalazioni, tagli e cuciti, tutto nel gesto di trovare o ritrovare la pace che stiamo smarrendo. Una qualche calma ideale, dopo aver ammazzato, nei pensieri e qualche volta davvero, i nostri vicini, rei di azioni sempre innominabili, imperdonabili, infinitamente incivili, come fare rumore, litigare, emettere suoni a scoregge, mentre ci riposiamo sballandoci nella mente e nel cuore con l’ultima serie televisiva sul virus mortale e lo scienziato pazzo. Uhmmm, potenza di un Gotham, di una metropoli oscura in onore di Batman e Company. In onore del Male, che è servizio del Bene, utile e necessario strumento di riscatto. Oh, com’è divino questo cielo di così adeguata oscurità, di folgori di cavi elettrici recisi, di lampi da pioggia sottile e persistente e di treni di automobili che volano in alto, proiettando luci di fanali sui trampoli di questa città che non esiste, perché vive solo e soltanto nelle follie di chi vuole sognare solo cose belle, ma non ci riesce, non ce la fa, non ci riesce proprio. Addio. Spegniamo questa luce, cazzo!

Ecco adesso che arriva questo raggio che è di autentico Sole, la stella di tutti, che avvolge e veste, nella certezza dei millenni, oggi come ieri e forse come domani. Ho una pioggia, adesso, che arriva direttamente da Istanbul. Me la regala Liana, che la porta attraverso la sua voce e la certezza della sua scrittura, che tanto bene si accompagna con le corde della chitarra. Liana è un dono prezioso, da scriverlo cento volte sul quaderno dei tuoi/miei segreti più sublimi, per non dimenticarla più, per non lasciala andar via. Ché ti fa stare bene, ti fa respirare, ti abbraccia senza una ragione apparente, ma solo e soltanto perché è fatta cosi. Abbraccia di voce e di vento e di caldo. Abbraccia. Le sue sono note che rassicurano, le parole le costruisce, prelevandole direttamente dal cuore, magicamente da lì partono e lì arrivano. Il cuore è centrale, centro perfetto che accoglie e fa ripartire. Che le sue sono “Partenze” che chiedono di partire e mai veramente arrivare, ché ogni arrivo diventa un’altra partenza, come un sogno possibile ed impossibile allo stesso tempo. Vai via per tornare ogni volta ed ogni volta riandare. È così straordinario e meraviglioso volare attraversando il mondo. E’ magico. È il volo. Per mai planare. Fa bene all’anima e al corpo questo viaggio. Flint è come in una nuvola della più giusta malinconia. Si abbraccia da solo, nel gesto di ritrovarsi, questa notte ne ha urgente bisogno, deve, deve, assolutamente deve. Così va di canto ramingo, che trova nella complicità della Luna il suo miglior gioco di luce, in un cammino dove bere le gioie in un dolore che non si attenua, che ti mostra le strade verso il mare, nel giorno che è notte, perché sempre la notte è dei pensieri e della musica dei fruscii e dei respiri e degli orizzonti da attraversare, per andar lontano, che è proprio lì che forse ci ritroveremo per vivere. Ed è tutto un giro lunghissimo, un soffio di vento tra i capelli, una notte assai chiara, correndo sul nastro argenteo di un fiume. Il fiume che scorre e dunque porta, conduce, trasporta, che è placido, tranquillo, ma anche furioso e invincibile, come solo l’acqua sa essere, buona e cattiva, molto vicina al nostro sentire da uomini, complessi e difficili, che cercano da sempre la perfezione nell’imperfezione, ma trovano, come in un puzzle, che è perfetta solo e soltanto l’imperfezione, divisa così com’è la visione in mille pezzi, sempre incomprensibili e da soli quasi del tutto inutili. E Liana canta e canta e soffia e soffia sempre storie d’Amore, che è l’amore la parte migliore dell’Universo. Di un sentimento che confina con ogni cielo, ogni nuvola, ogni granello di terra, ogni foglia, ogni goccia di Luce. Ed è solo e soltanto Vita, forse una Favola, niente di più, niente di meno. Vita.

(citazione: Liana Marino, cantautrice, il suo ultimo lavoro discografico: PARTENZE, 2020, Isola Tobia Label – 11 brani, durata 42 minuti).

Intanto il nostro essere eroi in questo tempo di vortici e sogni interrotti si mette in evidenza ogni istante di più. Andiamo di notte in notte, meditando sul contagio e sulla incerta efficienza degli antidoti, senza trovare un senso vero a tutto questo sistema di sconvolgimento. Troviamo negli angoli più oscuri la meraviglie di una rumba, che ci fa ballare senza sosta, che a noi piacciono le cose poco moderne e pochissimo silenziose. E dunque torniamo, perché semplicemente parlarne, facendoci girare tra le dita le sfere di cristallo per divinare quel che accadrà tra un solo immenso minuto. E dunque torniamo a noi, noi che l’Amore è predisposizione all’assurdo, proiezione di chissà cosa, presenza aliena dei nostri giorni, eppure meraviglia meravigliosa e mai doma, ché se ce l’hai sei quasi in grado di toccare il cielo e respirare di velocità e cantare a squarciagola e riallineare tutti i pianeti e giocare con le stelle, che hanno sempre bisogno di giocare, rallegrando una esistenza in solitudine, lassù, a milioni di anni luce da qui. Noi qui, che ci autocostruiamo tutti i percorsi, come polli che si autoistruiscono rivoltosi, rivoluzionari nei luoghi dell’allevamento, sognando la libertà, pregustando la fuga e un volo che non appartiene (loro e noialtri) per contratto di Natura. Come polli che sono pronti alla fine, pure se non lo sanno, polli che scopriranno la verità sulla loro sorte, non appena si accorgeranno di essere appesi ai ganci del macello. Eppure niente è sempre definitivo, perché sempre ci aspettiamo il colpo di scena finale. Che ti arrivi Flint, in mise da supereroe, a distruggere tutta la linea della morte, a mandare in culo l’intero impianto, a salvarci dalle nostre passioni per le cose false e bugiarde, per le stupidaggini e per le insulse trasmissioni di piazza. Ecco che arriva il nostro Flint, a difenderci dal nulla, prima che sia troppo tardi, prima che l’Amore ci diventa dispettoso, disprezzato, disperato. Prima di fermarci sui ganci del macello, ben prima di tutto questo immenso nulla.


i gufi e le civette
abitano di certo il mio destino
la notte raccontano storie
tutte mi riguardano
molto da vicino
mi si adattano come i guanti
quelli delle operazioni chirurgiche
funzionano come un giornale radio
la voce che rimbomba nelle orecchie
senza sosta
cento edizioni giornaliere
ho imparato a resistere alle loro parole
ho dovuto farlo per necessità
per via della rabbia per l’insonnia
troppe frasi non ti fanno dormire
ti bruciano i riposi
ti ardono tutti i pensieri notturni
così adesso riesco a filtrare i contenuti
ne scelgo solo di vera concreta utilità
per conoscere le danze della nuova alba
un riscatto magistrale
una vincita al lotto
un amore a gran trionfo
un mondo nuovo più accogliente
un tutto a donarci il tocco caldo di serenità
almeno
fino al terzo quarto raggio del mattino
quando Alexa
puntuale come da programma
ti strozza con l’orario del tuo futuro
più banale
è ora di alzarsi
finalmente
un altro giorno
ancora
uno

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