Francesco Giampietri, storico della filosofia e scrittore, è prematuramente venuto a mancare nei giorni appena trascorsi all’affetto dei suoi familiari e dei suoi molti amici e ha lasciato un vuoto umano e culturale incolmabile. Era nato a Venafro – la sua amatissima piccola città – nel 1983 e di lì era partito, sempre facendovi ritorno, per costruirsi un profilo accademico notevolissimo: dopo la laurea a pieni voti in Filosofia a Cassino, aveva brillantemente conseguito nel 2013 il dottorato a Tor Vergata con una tesi subito pubblicata per i tipi di AlboVersorioMimesis. Nel 2012, per Mimesis, aveva pubblicato una curatela di scritti leibniziani inediti che aveva suscitato grande consenso tra gli studiosi. Già collaboratore del CNR e dell’Università di Roma Tre, era docente di Filosofia Moderna e Storia del Pensiero Contemporaneo presso l’Ateneo di Cassino. Ha contribuito, tra l’altro, alla stesura de La Filosofia e le sue storie di Umberto Eco. Amava definirsi “spacciatore a piede libero di libri e di idee” e tale era effettivamente: infaticabile animatore e divulgatore culturale, era capace di suscitare intorno a sé un grande entusiasmo e un desiderio di bellezza che sapeva subito tradurre in iniziative pregevolissime ma accessibili a tutti. Del 2017, per L’Erudita, il suo primo libro per tutti, Lettere e Disarmonia. Quella che segue è la lettera per lui di una persona amica.

Ci siamo conosciuti nell’estate del 2010. Io avevo compiuto da qualche mese diciannove anni e tu ne avresti compiuti di lì a qualche mese ventisette. Per anni ho finto di non ricordare i particolari di quell’incontro: questo non perché non li ricordassi davvero ma perché mi divertiva mettere alla prova la tua memoria, che con cura maniacale archiviava ogni incontro e ogni gesto più piccolo associandoli perfettamente alla data e alle circostanze in cui si erano consumati. Non era la tua un’ossessione: era il segno più evidente dell’attenzione che tu davi a tutti e a ciascuno, e io questo l’ho sempre saputo. Quel primo incontro si svolse grazie alla mediazione di quella che era allora la mia professoressa di Latino e Greco del liceo e che qualche anno primo era stata la tua professoressa in quelle stesse aule. Io non sapevo a quale facoltà universitaria iscrivermi – o meglio sapevo fin troppo bene di voler fare Lettere, ma molti tentavano di distogliermene perché ero a loro dire troppo bravo per indirizzarmi verso un lavoro probabilmente poco redditizio – e la professoressa in questione mi consigliò di confrontarmi con te che negli ultimi anni di università avevi svolto a Cassino l’attività di orientamento per le matricole. Ti chiamai dal fisso di casa sul numero che la professoressa mi aveva lasciato, tu mi rispondesti con il tuo eloquio inconfondibile e mi dicesti – all’epoca non abitavo a Venafro – dove raggiungerti: «Ti aspetto a casa mia: è una villetta sulla strada di ingresso a Venafro da Napoli. C’è un complesso di palazzi gialli a ridosso della strada e dietro quei palazzi c’è casa mia». Così feci. Mi accogliesti nel tuo studio, la scrivania era disposta diversamente da come l’ho trovata disposta l’ultima volta che ci sono entrato – pochi mesi fa, quando venni per scrivere a quattro mani con te una lettera in difesa della tua Venafro descritta da una testata nazionale con toni macchiettistici che non tenevano in alcuna considerazione il fatto che in provincia possono fiorire persone come te dotate di una grazia speciale – e iniziasti a studiarmi con discrezione ma con la medesima attenzione che dovevi aver dedicato fino a qualche minuto avanti a quei trattati leibniziani che impegnavano all’epoca molto del tuo tempo. Goethe annotava da qualche parte che «per sfuggire al mondo non c’è mezzo più sicuro dell’arte ma che niente è meglio dell’arte per tenersi in contatto col mondo»: questo erano per te la filosofia e la letteratura, una chiave per soddisfare la tua curiosità del mondo e per appagare il tuo desiderio del mondo creando mondi nuovi. Ti colpì il mio giornale sotto il braccio, il fatto che io avessi dimestichezza con il domenicale culturale del Sole, ti colpirono le mie letture, il mio desiderio di recarmi quanto prima al festival filosofico di Modena dove tu eri stato l’anno precedente, si parlò di Pessoa e della Ginzburg e di Borges né poteva mancare Pasolini. Fumasti una sigaretta, lo ricordo bene. «Ti pare strano?», domandasti. Io: «Per nulla». Eri convinto che chi ti cogliesse nella flagranza di fumare non potesse che stupirsene: ma io non me ne stupii affatto perché capii subito che si trattava piuttosto di un capriccio dettato dai versi di Tabaccheria. La conversazione, per la professoressa che mi aveva indirizzato da te e che forse ti aveva dato il mandato che tu avevi bellamente disatteso di farmi desistere dall’iscrivermi a Lettere, fu un disastro: «Non dovevo mandarti da lui: deve averti confermato nel tuo proposito scelerato», sentenziò sconfortata la nostra comune insegnante. Per il resto, l’incontro fu una folgorazione: avrei capito successivamente che il tuo sguardo infaticabile sul paesaggio d’intorno si era posato su di me perché in quel momento io ero per te la conferma di quel tuo convincimento secondo cui solo un esercito di ragazzini avrebbe salvato il mondo. Negli anni avvenire ci siamo incontrati spesso in treno, un non-luogo per entrambi suggestivo: tu rientravi dai tuoi seminari dottorali a Tor Vergata ed io – che intanto a Lettere mi ero iscritto eccome – dalle mie frequenti incursioni romane per biblioteche e convegni. Tu sapevi, come scrive Magris, che «la meta del viaggio sono gli uomini» e, per questo, facevi di quei viaggi in treno l’occasione per consolidare rapporti già nati, intessere relazioni estemporanee, posare gli occhi sulle vite altrui, forse immaginare l’universo che abitava e agitava i singoli viaggiatori, cercare intorno affinità elettive. Da uno di quei viaggi, io rientravo riportando con me il vocabolario di Petrocchi per Treves del 1900 appena acquistato e avvolto nella carta di giornale e tu, avidissimo di scoprire cosa nascondesse quella confezione di fortuna, lasciasti rotolare a terra il primo dei due tomi danneggiandone l’ancoraggio: non mi dispiacque perché quello strappo nel libro era il souvenir di un incontro speciale né ho mai riparato quel danno facendo come i bambini cantati da Cohen, i quali «mostrano le cicatrici come medaglie». Nel 2013 io mi trasferii a Venafro: la nostra frequentazione si fece più fitta. Il tempo privilegiato per le nostre conversazioni era la notte: interminabili traversate per le vie della piccola città sostando sempre presso il solito bar per scoprire la più varia umanità che a quell’ora tarda si radunava ai tavolini che davano sulla strada di continuo solcata dai mezzi pesanti e lunghe passeggiate inerpicandoci nell’afa delle serate estive attraverso i vicoli e le piazzole della città vecchia. In quella oscurità dovevamo sentire, come scrive Montale, la «dura fatica di affondare per risorgere eguali da secoli, o da istanti». Tu ripetevi spesso che amavi la notte perché le persone sono come le vetrate colorate: brillano indistintamente quando all’esterno c’è il sole ma nelle tenebre rivelano la loro bellezza soltanto se è accesa una luce dall’interno. Io ti dico ora che quella luce che splende nel più profondo degli uomini non è dato vederla a tutti ma solo a chi, come te, non ha paura della notte né esita a calarsi attraverso le plaghe più recondite pur di interrogare come Ulisse Tiresia. Poi, è venuta la nostra prima associazione culturale: un’agorà pensata per tutti, idee in movimento. Ne uscimmo provati e sconfitti. Quando ci siamo ritrovati ci siamo detti che nulla, se non una reciproca stanchezza ingenerata da circostanze sfavorevoli, avrebbe potuto stroncare il nostro dialogo che era stato a lungo così fecondo e non privo di affetto sincero e abbiamo capito che solo il bene che ci eravamo scambiati contava davvero. A dicembre ti feci dono del catalogo della mostra tenuta a Roma nell’occasione del decennale della scomparsa di Pasolini, un pezzo che fortuitamente avevo rinvenuto mentre in una libreria dietro Piazza Navona cercavo con avidità un regalo che potesse farti felice: tu mi dicesti con la gioia di un bambino che ti avevo fatto un dono bellissimo e io ti promisi che appena sarebbe stato possibile in quella libreria ci saremmo andati insieme per scovare nuovi libri altrimenti introvabili. Non è andata così, e per me tornare in una libreria in cerca di un libro che mi catturi non potrà che vestirsi di una malinconia tenue come la tua voce che torna a risuonarmi dentro. Negli ultimi mesi, hai ancora costruito: hai continuato a tessere quell’ordito di relazioni e di emozioni che erano per te la piccola città e il mondo e a quanti erano di queste tue trame complici hai affidato il compito di non stancarsi di continuare a lavorare i fili di quella tela da te imbastita perché i cuori di tanti si aprissero e convertissero alla bellezza. Ora che sei andato via e viaggi, come cantava il tuo Guccini, «verso un mondo impensabile ancora da ogni teoria» per me e per tanti, come per il poeta, «è il vuoto ad ogni gradino». Rilke scriveva che «l’importante è avere una volta tanto, nella vita, una primavera incantata, che consenta di accumulare in petto tanta luce, tanto splendore, da dorare tutti i giorni a venire». Francesco Giampietri è stato per noi quella luce, splendente quanto mai: grazie, amico mio.

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