nei diari inediti pubblicati in versione integrale

“Io l’unica cosa che so è che a volte è il bagliore di quei quadri a svegliarmi all’alba, piuttosto che gli insetti o gli uccelli del mattino”[1]. Così scriveva nei suoi diari Johanna Bonger Van Gogh quando, tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, srotolava al mondo le tele di suo cognato.

Seduta con suo figlio sulle gambe, sola, in quell’appartamento di Parigi, rianimando le intenzioni di suo marito Theo (deceduto da poco) a proposito dell’arte di Vincent, decise di tornare in Olanda per dare inizio all’impresa tipicamente femminile di restituire bene e giustizia a quelle straordinarie opere d’arte. Era il 1891 e Johanna aveva centinaia di quadri e un’infinità di certezze. “Scrivo circondata dalla vertigine dei colori. Frutteti in fiore, in camera da letto; in sala da pranzo, sopra il camino, davanti ai miei occhi proprio adesso, i mangiatori di patate; nel piccolo soggiorno, il grandioso paesaggio di Arles e la notte stellata che sovrasta il Rodano. Ognuno di loro sfavilla per la casa. E sembrano dipinti da persone diverse”.

Pervicace e lucida, inondata dal giallo e dal blu, illuminata nel volto e solida nell’amore di madre, Johanna congegnò, pazientemente, inesauribili incontri con sconosciuti e ben presto si fece strada nella società degli artisti e dei mercanti. “Sono lusingata. I quadri, in casa, non passano affatto inosservati. Hanno una tale intensità. Aiutano, perfino, durante la cena o il caffè della mattina, a trovare un argomento di conversazione meno scontato delle condizioni del tempo, per rompere l’imbarazzo iniziale tra sconosciuti”.

Voleva vincere interamente, Johanna, e le riuscì, meravigliosamente: tela dopo tela, con il suo fragrante animo progressista, costruì l’epopea Van Gogh, sbaragliando ribalderie e incredulità. “Una resistenza cromatica contro tutte le forme di conformismo” scriveva a proposito di Vincent nei suoi preziosi diari, quattro, distesi in cinquecento pagine, consultabili dal 18 settembre in edizione digitale (bongerdiaries.org) nella versione originale olandese e nella traduzione in inglese curata da Hans Luijten, ricercatore senior al Van Gogh Museum di Amsterdam.

Pagine potenti, delicate, in grado di arricchire la conoscenza della personalità del pittore che si snoda così, oltre che nelle lettere scambiate con il fratello Theo, anche attraverso le parole di una donna. “[…] è così che guardava Vincent Van Gogh […]. Era stato nel patio centrale del dottor Gachet. Si era sentito il grido di un uccello, diretto a sud. Van Gogh non si era limitato a voltare il capo per seguire la direzione del suono, come avevamo fatto tutti, ma era ruotato con tutto il corpo, per fissare frontalmente la traccia lasciata dall’uccello in volo attraverso il cielo”.

Johanna era una lucente condottiera dalle azioni temperate, foriera di bellezza perché lucida nelle intenzioni. D’altronde, “La questione più importante non sono le circostanze in cui viviamo, ma la natura dei pensieri che formuliamo ogni giorno, il tipo di ideali che perseguiamo, in definitiva che uomini e che donne siamo veramente”[2]

[1] Le citazioni di Johanna sono tratte da Camilo Sànchez, La vedova Van Gogh – traduzione di Francesca Conte, Milano, Marcos y Marcos, 2016

[2] Helen Keller. Si cita da Daisaku Ikeda, Donne, forza della terra, Milano, Esperia Edizioni, 2019, p. 43

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