Si può dire che le donne, soprattutto, siano da sempre specialiste nel multitasking, ovvero la capacità di fare contemporaneamente più cose. Le contadine di un tempo allattavano il neonato e raccoglievano i pomodori, tenevano il bambino in braccio e una fascina di sterpi sulla schiena, e magari nel frattempo cadenzavano il passo per mantenere la “tina” al suo posto sulla testa. Gli antropologi suggeriscono che questa maggiore capacità di impegno complessivo- mentale e fisico- si sia sviluppata nel sesso femminile a causa del suo ruolo storico di “cura” della prole, in aggiunta a tutte le altre incombenze della vita quotidiana. Tuttavia queste proto-eroine del multitasking ne avrebbero fatto volentieri a meno se ci fosse stato chi si fosse occupato dei figli, o del resto, in loro vece. L’attuale epidemia di multitasking (anche adesso la donna è in prima fila, ma in buona compagnia) non è, viceversa, dovuta alla necessità, bensì alla subdola convinzione, assorbita dalla vita di relazione e da modelli ai quali è quasi impossibile non conformarsi, che chi fa più cose (e in un tempo ridotto) sia superiore a chi ne fa di meno. Il digitale ci ha dato l’erronea sicurezza che lo si possa fare in tranquillità, perfino con scioltezza: perché il vero multitasking non consiste nel correre ascoltando la musica, o nel sudare scendendo e salendo dallo step mentre ripassiamo il tedesco, né nel cantare sotto la doccia o masticare una gomma guardando un film, bensì nella pretesa di essere perennemente collegati e di seguire vari filoni grazie agli infiniti computer di cui ormai disponiamo, il PC, il tablet, il cellulare, sempre più piccoli, sempre più portabili, sempre più smart e accattivanti, con notifiche insistenti e talvolta quasi odiose che pochi, però, hanno il cuore di disattivare, perché sembrerebbe di perdere i contatti col mondo e di venir richiusi a forza in un convento stile “Il nome della rosa”. Il vero multiskating passa dall’account di posta elettronica a uno dei tanti gruppi whattsapp, dalle ultime notizie alla sua pagina facebook, e tutto ciò mentre parla al telefono, studia o legge, scrive una relazione e ha il tacchino in forno, e magari twitta tra una attività e l’altra. Qualche psicologo entra nel vivo della questione svelando che il multitasking (dove il “multi” ci lusinga, e ci dà quasi una patente da superman o superwoman) in realtà è switch- tasking, cioè uno spostarsi velocemente dall’una all’altra attività, perdendo qualcosa durante ogni spostamento in termini di attenzione, concentrazione, profondità, lucidità.

E qui sta il punto.

Ci hanno sempre raccontato che il nostro cervello possiede potenzialità che non adoperiamo abbastanza, e che anzi facciamo languire; senonché non è certo diventando dei moderni giocolieri il giusto modo di “risvegliarlo”, malgrado l’esultanza, più o meno nascosta, che proviamo allorché silenziosamente ci diciamo “ma quanto sono bravo”, “di che cosa sono capace”. Quando scriviamo una mail e simultaneamente conversiamo al cellulare diamo l’impressione all’ interlocutore di essere svagati e poco presenti- cosa peraltro vera- suscitandogli più di una volta l’interrogativo “Ma stai bene?”. E non va meglio “dalla parte della mail”. Risultiamo frettolosi, stringati, imprecisi, poco corretti, perfino, proprio perché svagati e poco presenti. “Chi è dappertutto”, scrive Seneca, “non è da nessuna parte”; e se già l’evangelico “Non si possono servire due padroni” ci mette in guardia, i risultati di padroni “plurimi” sono talvolta comici, talvolta addirittura disastrosi. Mi è capitato di rispondere a mia madre, telefonicamente, “Sono contenta che ti siano piaciute le sardine a pranzo”, mentre lei mi aveva parlato di lasagne. Senonché le “sardine” della cronaca, che stavo compulsando per integrare doveri filiali e obbligo di informazione, hanno preso il posto del ragù e della besciamella; e anche mia madre mi ha domandato, “Ma stai bene?”.

Se non è alienazione, che cos’è? Più che il coefficiente di attenzione, tanto vale calcolare il coefficiente di disattenzione, perché non è mentalmente possibile, sebbene digitalmente realizzabile, essere qui ed essere là, con gli amici del paese e con i colleghi del Dipartimento, i fratelli e i familiari, i compagni del corso di yoga in palestra e quello della scuola di ballo. È un’organizzazione del tempo falsamente razionale, dai benefici del tutto illusori: quel che è recepito rapidamente è spesso destinato a scomparire con altrettanta velocità. Tutto quello che è ovviamente più “lento”, dalla lettura tradizionale all’ascolto delle persone, ormai ci infastidisce; vogliamo un feedback immediato, oppure diamo segni di insofferenza. La massimizzazione, l’ottimizzazione, sono i nostri ideali; ci sediamo a una immaginaria catena di montaggio, ci stiamo trasformando in Hommes- machine , applichiamo alla nostra vita un criterio da PIL, cerchiamo di sfruttare la nostra energia più “scientificamente” possibile. Per di più, lo stile multitasking rischia di espandersi a dismisura anche sul nostro comportamento in generale: che è diventato leggero, effimero, senza basi e superficiale, e opera scelte e decisioni altrettanto superficiali, come se potessimo modificarle come modifichiamo un post; e intanto sopprimiamo, perché più impegnativa, la parte più profonda di noi.

Dimenticando la freschezza delle emozioni di un solo istante.

Un solo istante in cui si fa una sola cosa, o non si fa niente.

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