Ho raggiunto Emilio Barbarani attraverso mail per fargli una intervista. 

Non è una intervista legata al suo ruolo, quello che per  anni ha svolto come diplomatico e fine esperto di relazioni internazionali; non è neppure connessa alla sua esperienza di Giusto,  “titolo” che si è “guadagnato” sul campo in relazione alle sue scelte in Cile ai tempi del golpe di Pinochet.  È invece una intervista all’autore, nella quale però, inevitabilmente, si intersecano le trame della vita, le vicende della storia, le sue esperienze di lavoro. 

Perché c’è così tanta America nei tuoi libri?

L’America… In America stanno le mie radici, nella pampa argentina, un altro mondo. Ci sono capitato per caso da piccolo e là ho messo radici. Sogni, speranze, avventure, animali, caccie, inondazioni, tornados… E poi l’immensità di una regione disabitata dall’uomo e abitata dal vento. La libertà assoluta, senza confini. Sono cresciuto sulla groppa di un cavallo, assieme a un fratello e a una muta di quindici cani, in un collegio di preti perso nella pampa, i salesiani, che mi hanno insegnato la presenza di Dio, l’amore di Cristo, della Madonna, dei Santi, il distacco, e l’assoluto rispetto degli altri, a qualunque classe sociale appartengano, qualunque colore abbiano. L’uomo è il valore assoluto, i suoi diritti umani sono inderogabili, l’amore per tutti gli esseri ci avvicina a Dio.

A quindici anni sono tornato con questa visione del mondo in Europa. Lo stridore di quanto credevo con quanto ho incontrato fu da subito evidente. Vivevo in un aristocratico palazzo nel centro di Verona, entrai nelle fila della San Vincenzo per aiutare i poveri.

Il tuo primo libro è “Adios pampa querida”, edito da Aliberti. Come è nata l’idea di scriverlo e perché hai fissato come nodi  di svolgimento l’esilio e la nostalgia? 

La storia di un esilio, l’amaro sapore dei distacchi, la nostalgia della famiglia e della casa lontana a Verona, il desiderio di un ritorno impossibile, la struggente esperienza dell’abbandono, della solitudine, della povertà, della distanza infinita, assieme all’amore per quella steppa disabitata, per i suoi animali selvatici, per il cielo argentino, le sue nuvole, le sue stelle, per il pampero, il vento che soffia senza posa, hanno segnato per sempre il mio spirito. Hanno animato i miei ricordi e le storie che raccontavo ai miei figli. Finché questi mi hanno convinto a raccogliere i principali eventi della mia infanzia in un libro dedicato a loro. Così è nato “Adios pampa querida”, le vicende che hanno segnato la vita della mia famiglia e mia, fino a quando ebbi compiuto i quindici anni.

Nel tuo ultimo libro c’è il tuo appuntamento con una  pagina storica legata ai gerarchi e agli scienziati tedeschi in Argentina. Li hai incontrati personalmente nella tua attività di diplomatico o il tuo è stato un interesse a prescindere dall’attività lavorativa? 

“La via dei topi, Sulle tracce dei nazisti in Argentina” (Ianieri) è stato pubblicato dal mio Editore come “romanzo storico”. Ciò significa, in concreto, che gran parte del  libro si ispira a fatti realmente accaduti, a me personalmente accaduti, anche se il filone narrativo è opera di fantasia. Buona parte dei personaggi che appaiono li ho personalmente conosciuti, anche se a quasi tutti ho mutato il nome, per evidenti motivi di opportunità. Il Monte Innominato non esiste, anche se si suppone che sorga nelle vicinanze del Monte Moyano, che ho scalato, accanto alla “via dei contrabbandieri”. Padre Martin, quando ero ragazzo, era il Direttore del mio collegio Don Bosco. E così via… La mia attività professionale a Buenos Aires si è spesso incrociata con alcuni dei personaggi che animano il racconto. Anche se non ho frequentato l’affollato ambiente tedesco in Argentina.

Nei tuoi libri c’è un binomio costante: vita e storia . A quale vicenda storica, tra quelle da te narrate ,  e a quale “vita”, tra le biografie dei personaggi da te raccontati , sei più legato?

Alla fine del 1974 venni trasferito da Buenos Aires alla Ambasciata italiana in Santiago del Cile, dove imperversava la repressione militare e dove nottetempo, durante il coprifuoco, era stato gettato nel nostro giardino, dalla strada, il cadavere di Lumi Videla, giovane dirigente del Movimiento Izquierda Revolucionaria (MIR), apparentemente morta sotto interrogatorio delle forze di sicurezza. Entrai a vivere per due anni in Residenza, con i rifugiati che ivi si trovavano. Attraverso di loro venni a sapere quanto accadeva sotto la repressione, mentre le mie relazioni nel settore della borghesia benestante mi informavano degli errori compiuti nel recente passato da Salvador Allende e dalla sinistra cilena. Sotto la direzione illuminata del mio capo, Ambasciatore Tomaso de Vergottini, e con il valido aiuto di sua moglie, Anna Sofia, l’Ambasciata d’Italia riuscì a mettere in salvo circa 750 rifugiati, anche per la coraggiosa azione compiuta fin dai primi giorni del golpe dai colleghi come De Masi, Toscano e Spinola, poi richiamati a Roma. Anche buona parte del personale non direttivo che allora operava nella nostra Ambasciata dimostrò coraggio e generosità di fronte alla emergenza. Buona parte di ciò che allora accadde lo ho narrato in “Chi ha uccisa Lumi Videla?” (Mursia), che ha avuto tre premi letterari, tra cui il “Flaiano 2019” . Credo che quanto avvenne in Santiago in quegli anni e la mia azione a difesa dei diritti umani  dei perseguitati, sia la vicenda che più ha segnato la mia vita professionale, anche per i rischi personali che mi sono assunto. I miei compagni in questa azione spesso spericolata, che pure hanno rischiato assai, sono coloro che io non dimentico e guardo sempre con grande ammirazione. Come la figura dell’Ambasciatore svedese, Harald Edelstam, che lottò per la difesa dei diritti umani e dei perseguitati, finché non venne espulso dal Cile come “persona non grata”. Il mio ricordo va a tutti loro, nella convinzione che se anziché in Cile ci fossimo trovati in qualche Paese comunista di oltre cortina, la nostra condotta in difesa dei diritti umani dei perseguitati non sarebbe stata diversa!

Ho conosciuto Emilio Barbarani proprio leggendo questo libro, una estate di qualche anno fa. La  storia da lui narrata mi catturò, testa e cuore. Lo contattai attraverso fb (sono grata ai social, se ne può fare un ottimo uso). Da allora è nato un solidale rapporto con il liceo “Romita” di Campobasso, dove sorge il giardino dei Giusti. Ogni tanto ci incontriamo altrove, in occasione di  corsi di storia contemporanea e negli incontri dedicati ai Giusti della storia, in cui lui è il relatore. Quello che si desidera ascoltare, certi della ricchezza dei saperi che riesce a declinare e delle suggestioni che provocano le vicende narrate, le quali, anche nella loro tragicità, invariabilmente riescono tuttavia a valorizzare il senso di fiducia e a rilanciare l’idea di non sentirsi individualmente impotenti nelle cose della vita e della Storia. 

Buona lettura dei suoi libri! 

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