È la sera dell’8 dicembre 1980, un lunedì. Mancano pochi minuti alle undici. All’ingresso del Dakota building di New York, Mark David Chapman, un’ex guardia giurata con problemi di tossicodipendenza e un ricovero in clinica per malati di mente, esplode cinque colpi di pistola contro John Lennon. Quattro vanno a segno, Lennon muore dopo pochi minuti al Roosvelt Hospital.

Facciamo un passo indietro. È sempre l’8 dicembre 1980, ma sono le sette di sera. La scena è sempre la stessa. Ingresso del Dakota building. Lennon esce dal residence. Ad aspettarlo c’è sempre Mark Chapman. Ha in mano una copia di Double Fantasy, l’album appena pubblicato da Lennon. Chiede un autografo, l’ex Beatle prende il disco e firma la copia. C’è una foto che ritrae quel momento, a scattarla e Paul Goresh, un fotografo presente alla scena. Mark Chapman è stato per anni un fan dei Beatles e di Lennon in particolare. Al momento degli spari, quattro ore dopo, ha in tasca una copia del Giovane Holden di Salinger. Dichiarerà alla polizia di aver sparato a Lennon per punirlo. Lennon, secondo Chapman, aveva tradito gli ideali della sua generazione.

Finisce così, in una pozza di sangue, la vita di John Lennon e, insieme a lui, tutto quello che sarebbe venuto nel tempo da un artista, un musicista, una delle menti più brillanti e visionarie del XX secolo. Quello che resta, adesso è soltanto il tempo che scorre a ritroso. Un nastro che torna indietro di ventitre anni. Sabato 6 luglio 1957, Liverpool, Chiesa di St. Peter. È il giorno della festa annuale della parrocchia. John Lennon ha sedici anni, si esibisce insieme al suo gruppo, i Quarrymen. A quella festa conosce Paul McCartney. Dopo Mozart, è in quel momento esatto che la storia partorisce due geni della musica, un sodalizio che regalerà a milioni di persone, per decenni et ultra, canzoni che resteranno nel tempo e nell’animo, nelle menti e nei sogni di chi è stato ragazzo negli anni ‘60, di chi è stato adulto e vecchio in quel tempo, di chi non c’era sarebbe arrivato dopo. Quella dei Beatles è una musica che ha resistito all’oltraggio del tempo, quello che ci passa in mezzo, ci attraversa, ci consuma e ci trasforma. Le canzoni dei quattro ragazzi di Liverpool, i loro dischi, sono pietre miliari della musica, non solo del Pop o del Rock, ma dell’intera storia della musica. Dentro quei dischi, tredici album pubblicati dal 1963 al 1970, c’è la gioia, l’inquietudine, le visioni, il delirio, la sperimentazione, i ricordi, la rivoluzione, ci sono tutti gli anni ’60, le voci e i volti di quel tempo, i colori; dentro quei solchi c’è l’amore, la morte, il dolore, la resurrezione, la spensieratezza e l’introspezione, le droghe, la religione, le fughe mistiche e i ritorni, il cinema, i cartoni animati, i viaggi, gli acidi, i sottomarini e gli autobus. Sette anni, tanto dura il viaggio dei quattro ragazzi di Liverpool che, in realtà furono cinque. Insieme a John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Star, c’è un quinto Beatle. George Martin, produttore discografico, compositore e, soprattutto arrangiatore. È lui, nei mitici studi della Emi ad Abbey Road a Londra, a creare il suono dei Beatles, trasformando il talento grezzo di Lennon e McCartney in quel suono che ancora oggi resta unico, inimitabile. A lui si devono molti degli arrangiamenti presenti nelle canzoni dei Beatles, specie dal 1965 in poi. È quello l’anno della svolta. Dopo i primi cinque album, quelli della beatlemania che infiammò milioni di giovani, Please Please Me, With The Beatles, A Hard Day’s Night, Beatles For Sale, Help, con Rubber Soul arriva la svolta che fa di quel suono allegro e scanzonato, un suono maturo e diverso da tutto quello che si era sentito prima e da quello che si sentirà dopo. Sono gli anni di Revolver, del seminale Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band, del White Album, di Abbey Road, di Let It Be.

Formalmente la storia dei Beatles finisce nel 1970. In realtà c’è un giorno preciso, un anno prima, che può essere considerato l’ultimo giorno felice di una stagione luminosa. Londra, giovedì 30 gennaio 1969. È una mattina fredda di nuvole e luce. Il Beatles salgono sul tetto della Apple, il palazzo dove ha sede la loro casa discografica, per il loro ultimo concerto. Quarantadue minuti, nove takes, cinque canzoni. Tanto dura l’ultimo concerto, poi i Beatles vengono fermati dalla polizia.

È in quel preciso momento che finiscono gli anni ’60 col loro carico di sogni e suggestioni.

Le strade da quel momento si dividono definitivamente. Lennon inizierà un proprio percorso artistico. Sette album, spesso insieme all’inseparabile compagna, Yoko Ono, tra i quali veri e propri capolavori come Imagine del 1971 e Mind Games del 1973. Nel 1975, dopo l’album Rock ‘n’ Roll, il ritiro dalle scene e cinque lunghi anni dedicati esclusivamente alla vita privata. Nel 1980, il 17 novembre, ventuno giorni prima di morire, il ritorno con l’album Double Fantasy.

Poi cinque lampi nella notte, cinque esplosioni, quattro colpi che vanno a segno, il buio che si fonde alla notte. La morte.

Sono passati quarant’anni, milioni di persone piangono ancora quell’addio e noi con loro. Le canzoni dei Beatles hanno accompagnato la vita di molti di noi e sono legate a momenti indelebili delle nostre vite. Quando siamo stati felici e quando siamo stati tristi, quando qualcuno è arrivato e qualcuno se n’è andato. Quando abbiamo pensato avesse un senso lottare per un mondo migliore e dal Vietnam al Muro di Berlino, a Piazza Tienanmen abbiamo protestato e cantato canzoni come Imagine e Give Peace a Chance.

Come ha scritto David Sheff nell’introduzione a All We Are Saying, il volume che raccoglie l’ultima, lunghissima intervista a Lennon prima della morte, “sarebbe più facile vivere con gli occhi chiusi”. Chiudere gli occhi è un modo per non vedere noi stessi e gli altri. Se invece li apriamo diventiamo consapevoli di quello che non ci piace e possiamo provare a cambiarlo. Le canzoni di John Lennon ci aiutano ad aprire gli occhi, a cambiare. A immaginare un mondo migliore o almeno a provare a farlo. Hello and Goodbye, John. Addio e grazie. Ovunque tu sia.