Alla fine Ligabue era diventato lui. Gli era rimasta cucita sul volto quell’espressione da stralunato, da lunatic come direbbero i Pink Floyd. Non aveva il sembiante del pazzo ma sicuramente lo sguardo sbilenco di chi ha nella testa un altro che non è lui. Gli occhi larghi, rotondissimi, scopparelli, cerchiati di nero e spiritati, erano rimasti quelli del ’77, così l’espressione stupefatta di chi ha incontrato il mondo e non lo ha riconosciuto. Flavio Bucci, il Ligabue dello sceneggiato televisivo, se né andato a 72 anni per colpa di un infarto. Un colpo secco al cuore che lo ha portato nell’Ade. Adesso è nell’Oltretomba, quello degli artisti però, dove l’ombra non diventa buio ma sagoma che riprende il mimo e la danza e, insieme, la parola. Un Olimpo celeste dove Calliope è sempre all’erta e il sipario non cala mai. Era atteso nelle prossime settimane in Molise, da dove la sua famiglia, originaria di Casacalenda per derivazione paterna, era partita in direzione Torino. Lui era nato lì, in Piemonte, e quella sabauda fu terra d’accoglienza e di formazione. La sua terra d’origine, però, non si scordò di lui e lui non si scordò della terra di suo padre. Casacalenda gli conferì la cittadinanza onoraria e dalla Regione Molise, per bocca del suo presidente, Donato Toma, arriva oggi la proposta di intitolare a Flavio Bucci il Molise Cinema Film Festival che proprio a Casacalenda si tiene ogni anno e che rappresenta una delle rassegne di genere più prestigiose sul piano nazionale et ultra.

Alla fine Ligabue era diventato lui, Flavio Bucci, per una vita di progressivo isolamento. La stessa morte, avvenuta a Fiumicino, lo ha colto di fianco e da solo. Riverso sul pavimento, senza fiato e senza luce, così è stato trovato da qualcuno che aveva accesso alla sua casa. “Ho speso tutto in alcol e droga. La vita è una somma di errori, gioie, piaceri: non mi pento di niente. Ho amato, riso, vissuto: vi pare poco?”, ha detto in un’intervista al Corriere della Sera. No, non è poco. Soprattutto è molto aver impresso negli occhi di una generazione, quella degli ultra cinquantenni, nata all’alba degli anni ’60, una straordinaria interpretazione televisiva di Antonio Ligabue, Antonio Laccabue, questo il vero nome dell’artista, figlio della ragazza madre Elisabetta Costa. Ligabue non seppe mai chi fu il padre che lo generò e Bonfiglio Laccabue, da cui prese il cognome, emigrato in Svizzera come la mamma, ne fu il semplice padre adottivo. Negli anni ’70 le fiction si chiamavano sceneggiati, un genere televisivo che si era già sviluppato lungo tutto il decennio precedente e che grazie a maestri del genere, primo tra tutti Anton Giulio Majano, aveva consentito a migliaia di italiani di conoscere grandi opere letterarie e grandi autori che mai la gente comune mai avrebbe potuto leggere: Dostoevskij, Tolstoj, Dumas, Stevenson, Omero, solo per citarne alcuni. In questo filone aureo si inserisce “Ligabue” diretto da Salvatore Nocita, sceneggiato del 1977 che fa conoscere Flavio Bucci al grande pubblico. A lui viene affidata la parte di Antonio Ligabue, al mat, come veniva chiamato il pittore nella Bassa padana. Un’interpretazione magistrale che nessuno dei ragazzi di quella generazione, oggi oltre la soglia dei cinquant’anni, ha mai dimenticato. Un’altra televisione, un’altra vita che oggi mancano e che, con la scomparsa di Flavio Bucci mancheranno ancora di più. Più di tutti i cento e oltre lavori di Bucci, sarà il Ligabue televisivo quello che di lui resterà nel tempo a venire, ben oltre tutte le altre e significative presenze, da “La classe operaia va in Paradiso” di Elio Petri al “Marchese del Grillo” di Mario Monicelli, da “Suspiria” di Dario Argento a “La Piovra” di Damiano Damiani.

Lo spettacolo che avrebbe portato sulle tavole dei teatri molisani, il 23 febbraio al Loto di Ferrazzano e il 3 marzo all’Italo-Argentino di Agnone (una coproduzione della Fondazione Molise cultura), ha un titolo che oggi fa battere una nota di tristezza nel cuore: “E pensare che ero partito così bene”. Lo spettacolo che avremmo visto e che non vedremo mai, è l’autobiografica teatrale di Antonio Ligabue di cui, Flavio Bucci, possiamo dire senza ombra di dubbio fosse l’alter ego. Con la sua scomparsa e rimorto Toni, Antonio Ligabue, anzi: Laccabue. Dam un bes, diceva Ligabue, quello vero, al suo grande amore, la Cesarina, locandiera della “Croce bianca”, dove il pittore trascorse gli ultimi anni della sua vita. Quel bacio non venne mai, diventò però una bella canzone dei Nomadi: “Dam un bes”. Fu la Cesarina, un’estranea, a trovare Ligabue a terra, riverso sul pavimento della camera, la mattina del 18 novembre 1962. Colto da una paresi, ma ancora vivo: morì infatti il 27 maggio 1965. Anche Flavio Bucci è stato trovato da un estraneo, riverso sul pavimento, una mattina di febbraio del 2020. Purtroppo era già morto, esattamente in un giorno che segna 18 sul calendario, lo stesso in cui Ligabue cominciò la sua discesa nell’Ade. Forse, di questo, sarà contento. E pare di vederlo, ora, un minuto prima che la giunga la morte, come don Bastiano nel “Marchese del Grillo” prima di essere ghigliottinato. Sembra di vederlo, adesso, e sembra di risentire il suo ultimo, memorabile, beffardo discorso di congedo: “Massa di pecoroni invigliacchiti, inginocchiatevi. Ecco, adesso pure io posso perdonare chi mi ha fatto del male. In primis, al Papa che si crede il padrone del Cielo. In secundis, a Napulione che si crede il padrone della Terra. E per ultimo al boia, qua, che si crede il padrone della Morte. Ma soprattutto posso perdonare a voi, figli miei, che non siete padroni di un cazzo!”. Ci piace immaginarlo così, mentre ne se va, senza pentirsi di niente. “Ho amato, ho riso, ho vissuto, vi pare poco?”. No, non ci pare poco, al contrario ci pare molto. Buon viaggio.

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