“L’organo è l’unico strumento
sul quale è possibile mantenere una nota
tanto a lungo da produrre un’impressione
di tempo e di eternità”. 

OLIVIER MESSIAEN
compositore, pianista e organista francese (1908 – 1992)

Capitolo I – Il contesto

 1.1 – Il borgo.

 

Toro è un paese di poco meno di duemila abitanti che si trova a circa nove chilometri di distanza da Campobasso, la cittadina capoluogo della regione Molise. Il suo nome sembrerebbe derivare da una parola latina, «torum», che indicherebbe lo sperone acuminato su cui è stato edificato. Come gli altri abitati che formano il circondario del capoluogo regionale, sembra che Toro abbia conservato in maniera maggiormente integra il proprio aspetto strutturale e culturale, riflesso nella popolazione locale, nella sua tipica parlata dialettale e nelle tradizioni, sacre o profane che siano, portate avanti secondo una memoria antica, oltre che difficile da datare per ogni circostanza. Toro si erge direttamente sospesa tra il cielo e i dolci crinali delle colline coltivate ma povere di abitanti, costruito su un costone tufaceo acuminato, che controlla a vista un fondovalle di primaria importanza: qui, infatti, scorre il torrente Tappino. Proprio accanto a lui si snoda quello che in antico era un altro “fiume”, fatto integralmente d’erba: il tratturo “Lucera – Castel di Sangro”, la millenaria via che si estende dall’Appennino abruzzese al Tavoliere delle Puglie, utilizzata per i commerci, i pellegrinaggi e la transumanza di bovini e ovini. Per cercare di immaginare come si sia svolta la vita di una comunità nel corso dei secoli è necessario osservare, anzi scandagliare con lo sguardo il territorio e le eventuali risorse naturali che lo caratterizzano: è evidente che non è mai stata, questa, una terra d’industrie. Ebbene, già le scoscese pendici dell’altura su cui sorge il paese presentano capillarmente orti, uliveti e vigneti familiari, illuminati dal sole e nutriti da una serie di tante piccole risorse idriche, la cui presenza è indicata dalle scarse fonti pastorali ancora visibili e che invece un tempo erano al servizio delle mandrie che punteggiavano i pendii e le terre lasciate a pascolo. All’evidente ricchezza agro-pastorale, principale e storica fonte di sostentamento degli abitanti, dobbiamo aggiungere un ruolo di relativa centralità dell’abitato, proprio in virtù della sua posizione: sono numerose le arterie stradali di antica origine che connettono in maniera dinamica l’altura del paese, le colline ed il fondovalle di cui abbiamo parlato, influenzando positivamente il movimento di uomini, animali, merci e perciò l’intera economia del piccolo paese molisano, fin dai tempi degli antichi Sanniti e Romani. I loro insediamenti da tempo sono noti, per i primi attraverso un sepolcreto in contrada “Selva” e per i secondi per una probabile villa in contrada “Pianelle”, ossia un po’ agli estremi del territorio comunale torese.

1.2 – Il legame con l’istituzione ecclesiastica.                                                                    

Come già evidenziato in altre sedi con l’opportuna dovizia di particolari e come sarà mostrato anche in questo nuovo testo, esiste un altro importantissimo aspetto del passato della comunità di Toro: lo stretto legame tra gli abitanti del paese e le istituzioni ecclesiastiche cattoliche. È un legame che va senza dubbio oltre l’attaccamento religioso che comunque è stata una caratteristica comune delle masse popolari di questo territorio da molti secoli a questa parte. In quest’ottica, è molto importante la prima testimonianza sull’esistenza dell’abitato di Toro, contenuta in una pergamena redatta in pieno Medioevo, nell’anno 1090, custodita nell’archivio storico della chiesa di Santa Sofia di Benevento, presso il Museo del Sannio. Il documento sancisce, dinanzi ad un notaio, la donazione dell’abitato fortificato (chiamato “castrum/castellum”) di Toro all’allora abbazia di Santa Sofia da parte di un certo Riccardo del Principato, figlio di Tristano, importante cavaliere normanno e padrone feudale del borgo. Toro diventa quindi, fin da questa remota età, un feudo ecclesiastico: suo signore feudale non sarà più un qualche esponente della nobiltà come Riccardo del Principato, bensì il venerabile e potente abate di Santa Sofia in persona. Questo particolare status perdurò fino al 1785, anno in cui l’abbazia beneventana, con tutti i suoi beni (quindi anche il feudo di Toro), fu incamerata nel Demanio della monarchia borbonica, decretando quindi la progressiva fine del suo dominio diretto su Toro. In questo modo si comprende molto bene come in passato gli edifici religiosi toresi siano stati ricchi, abbastanza imponenti e tenuti in grande considerazione dalla comunità, devota ad alcune figure di abati beneventani che coltivarono dei rapporti particolarmente stretti con questi loro vassalli. L’esempio più tangibile è quello di Vincenzo Maria Orsini nel XVIII secolo, famoso cardinale ed abate di Santa Sofia, asceso poi al soglio pontificio con il nome di papa Benedetto XIII. Questo prelato amò particolarmente soggiornare nel convento torese di Santa Maria di Loreto e fu sempre prodigo con la comunità locale, abbellendone gli edifici sacri con i suoi doni artistici e avendone a cuore le esigenze economiche. La secolare giurisdizione ecclesiastica sul paese di Toro ha avuto chiaramente dei vantaggi e degli svantaggi per i suoi abitanti, specialmente sul piano economico. Da un lato il numeroso clero ricettizio presente a Toro esigeva il pagamento di esosi tributi ed elargizioni in natura o in danaro, le famigerate “decime”, suscitando negli ultimi periodi delle rimostranze da parte dell’amministrazione civile. Dall’altro lato il paese fu da sempre una sorta di zona franca, in quanto non soggetta alle altre, ulteriori tasse imposte dall’autorità civile, dalla monarchia napoletana insomma e in quanto godeva di tutti gli altri privilegi giuridici propri della feudalità ecclesiastica. Ciò ha portato dunque la popolazione a ben legarsi affettivamente all’autorità religiosa e contemporaneamente a crescere, nonostante le tante difficoltà delle epoche passate che in seguito ricorderemo. A proposito di ciò, è opportuno ricordare che nonostante l’esigua estensione del nucleo più antico del centro abitato, anticamente racchiuso dalla cinta muraria urbana, per il numero di abitanti lì residenti, Toro era considerato uno dei borghi più popolosi della zona.

1.3 – La chiesa madre del SS. Salvatore.

In quasi ogni paese del Molise e del Mezzogiorno d’Italia è possibile notare che il luogo maggiormente ricco di Storia e d’arte sia la chiesa, per i motivi a cui abbiamo già accennato e anche per motivi di maggiore conservazione di queste rispetto ad edifici civili di altra tipologia. Questo è anche il caso degli edifici sacri di Toro. È importante parlare al plurale, in quanto nel paese gli edifici religiosi più notevoli per la loro storia e per le opere artistiche che contengono sono ben due: la chiesa madre, intitolata al SS. Salvatore, e il convento, dedicato a Santa Maria di Loreto. In questa sede ci si soffermerà in particolare sulla chiesa madre del paese. Questa si trova in posizione sopraelevata, nel punto più alto di tutto l’abitato e perciò sorge direttamente sullo sperone roccioso. Particolarmente rilevante e conosciuta è la sua alta torre campanaria, avvistabile ad occhio nudo anche da grande distanza e perciò sicuro elemento di orientamento geografico già nel passato. Tuttavia il complesso è inserito in un interessante corollario architettonico: l’ingresso della chiesa si trova in un piccolo e assai panoramico slargo (piazza Luigi Alberto Trotta), con il piccolo obelisco del Monumento ai caduti delle due guerre mondiali, il palazzo aristocratico della famiglia Trotta (probabilmente la più importante del paese) e l’ingresso al labirinto delle strette viuzze paesane, le antiche «rue». Il retro, invece, è contraddistinto dalla piazza del Piano e da quelle tante piccole costruzioni di volta in volta addossate nel corso degli ultimi due secoli alla rupe dove la chiesa è stata edificata. L’aspetto odierno del complesso non è rimasto inalterato nel tempo, anzi, al contrario, è l’esito finale di numerose fasi costruttive, non dettate dal capriccio degli abitanti o di qualche autorità, bensì dalla necessità. Questa necessità fu provocata dalle varie calamità naturali che nel passato misero a dura prova la sopravvivenza della comunità torese, come i grandi e devastanti terremoti, succedutisi a partire dal XV secolo. Così, soprattutto per le epoche più lontane, dobbiamo basarci unicamente su degli indizi per immaginare il suo originale aspetto architettonico. Una data in particolare che può essere assunta come convenzionale punto di spartiacque in un’immaginaria time line è il 26 luglio 1805, giorno, mese e anno del soprannominato “terremoto di Sant’Anna” per la ricorrenza religiosa del dì in cui nel Molise centro-meridionale si verificò una potente scossa sismica che, stando alle fonti del tempo, seminò il terrore, la distruzione e la morte in tutta la regione. In quest’occasione il paese di Toro risultò crollato per intero eccetto il convento di Santa Maria di Loreto e su una popolazione totale di quasi tremila abitanti ne morirono quasi trecento. Come ancora oggi recita una raffinata epigrafe latina al di sopra del portale principale della stessa chiesa, l’edificio era stato completamente distrutto: l’antica chiesa del SS. Salvatore non esisteva più, se non nelle squassate fondamenta e perciò dovette essere ricostruita quasi da zero, non senza enormi sforzi fisici e soprattutto economici da parte degli abitanti superstiti come anche di tutte le autorità del tempo, locali e non. Dunque, per quanto riguarda le epoche precedenti a questa tragedia sismica, possiamo dire innanzitutto che non si conosce la data esatta di fondazione della chiesa ma non è illogico ipotizzare che la sua fondazione sia coeva alla nascita dell’abitato intero e cioè attorno all’anno Mille, in piena età longobarda. Non bisogna dimenticare nemmeno che la torre campanaria, come accaduto anche in altri paesi molisani, in origine non aveva questa funzione, bensì doveva trattarsi proprio di un torrione longobardo di difesa e avvistamento in comunicazione con altre installazioni militari che, sistematicamente ad una distanza regolare, garantivano la sorveglianza del tratturo Lucera – Castel di Sangro, a quel tempo asse stradale che conduceva in un territorio ostile ai Longobardi del Ducato beneventano di cui l’attuale Molise faceva parte: la Puglia, saldamente dominata dall’Impero bizantino. Le uniche vestigia materiali di questa originaria chiesa medioevale (la cui primordiale intitolazione non ci è nota) sono due basi di colonne in pietra, di forma piramidale, integralmente scolpiti con tre grossi pesci che intrecciano le proprie code e databili in maniera indiscutibile al Medioevo. Assai probabilmente coeva è anche una vasca di pietra, indicata unicamente dalla tradizione popolare come storica fonte battesimale, rozzamente scolpita con una scena pastorale o di caccia, sul cui fondo è stata reimpiegata un’iscrizione funeraria romana di età imperiale. Almeno dal XIV secolo doveva essere in piedi, adiacente dalla parte sinistra della chiesa per chi entra, un palazzo badiale, segno tangibile della signoria ecclesiastica di Santa Sofia sul borgo, purtroppo anche questo crollato nel 1805 e mai più ricostruito. Non sappiamo se e in che modo il forte terremoto del 1456 abbia danneggiato la chiesa, mentre maggiori dettagli li abbiamo per il sisma successivo, ossia quello del 1688. Da documenti notarili custoditi nell’Archivio di Stato di Campobasso sappiamo, in maniera certa, che stavolta il paese intero fu ben danneggiato dalla scossa e, dagli atti delle periodiche visite degli emissari dell’abbazia sofiana, che occorse un radicale restauro della chiesa e della torre campanaria che, nonostante tutto, fu ultimato nel 1694: così, due anni dopo, la chiesa fu solennemente riconsacrata e riaperta ai fedeli toresi. Di questa nuova fase costruttiva dell’edificio abbiamo memoria in un’epigrafe latina all’interno di un cartiglio elegantemente barocco, oggi situato sulla volta della navata centrale alla base della cupola della chiesa. Nuovi lavori di rifacimento degli intonaci parietali occorreranno dopo la rovinosa caduta di un fulmine temporalesco sulla chiesa nel 1707, che la danneggiò nel modo sopraccitato. Nel 1710 Vincenzo Maria Orsini, in qualità di arcivescovo di Benevento (della cui diocesi fece parte anche Toro fino al 1983) ordinò di inventariare e descrivere le proprietà e le chiese di sua giurisdizione. Dunque anche a Toro, tra il 1712 e il 1713, furono redatti a mano i dettagliati volumi dell’«Inventario dei Luoghi Pii», che offrono una nitida istantanea degli edifici sacri del paese, del loro aspetto strutturale e delle loro proprietà. Solo in questo modo è possibile provare ad immaginare la chiesa del SS. Salvatore antecedente al crollo del 1805, quella che potrebbe essere definita come la “chiesa perduta”: l’orientamento dell’ingresso in virtù dell’orografia del sito non poteva che essere identico all’attuale, c’erano una navata principale e due laterali (che ospitavano altri sei altari secondari), separate da archi e colonne di pietra; i soffitti erano lignei, di tavole o cassettoni dipinti mentre le pareti erano semplicemente intonacate ad arriccio e poi imbiancate. Come ogni chiesa di quell’epoca, sotto il suo pavimento si trovavano sei fosse comuni per i defunti, suddivise almeno tra chierici, uomini, donne e bambini. La facciata presentava una nicchia sul portale d’ingresso con un rilievo a busto di Cristo e al di sopra un cornicione di stucco dipinto, che delimitava un grande affresco parietale con la Madonna e i santi guerrieri Giorgio e Mercurio (quest’ultimo venerato patrono del paese). All’interno c’erano numerose statue, quadri sacri, stucchi, un pulpito di legno dipinto mentre dietro l’altare c’era un coro di dieci sedili lignei e su un coretto sopraelevato, celato da sportelli fatti a graticcio, un pregiato organo positivo ad otto registri di cui non si ha altra notizia. Ma come già spiegato, tutto ciò scomparve con il terremoto del 1805. La nuova chiesa che venne ricostruita in stile neobarocco con molta fatica, e che possiamo ammirare ancora oggi così come il ricostruito campanile, ha pianta a croce latina, è più grande della precedente, ha una cupola centrale e delle grandi cappelle laterali dedicate a San Michele, San Nicola, San Mercurio e all’Addolorata. La chiesa odierna possiede inoltre tre portali d’ingresso, anticipati da un piccolo piazzale lastricato, raggiungibile con due comode scalinate a semicerchio, realizzate nel 1885 con un’elegante ringhiera metallica. Indubbiamente altri lavori di restauro si resero necessari specialmente dopo altri terremoti, purtroppo autentica piaga del territorio molisano, nel 1913, 1980 e 2002, fino all’ultimo rifacimento dell’intonaco esterno e la decorazione della facciata. Oltre ai disastri naturali, un certo ruolo, anche se di più lieve entità, lo ebbero anche i combattimenti dell’autunno 1943, nel pieno della Seconda guerra mondiale, con le varie esplosioni di granate da parte delle truppe tedesche in ritirata avvenute in paese, che qualche lesione arrecarono anche alla chiesa. In quest’ultimo caso le riparazioni, stando ai documenti custoditi nell’Archivio Diocesano di Campobasso, vennero effettuate solo all’inizio degli anni Cinquanta, vista la situazione economica dell’intera nazione in quegli anni di immediato dopoguerra. Bisogna ricordare, infine, un po’ per chiudere ad anello ciò che è stato affermato inizialmente, che fino agli anni Sessanta del Novecento la chiesa parrocchiale di Toro ebbe delle entrate economiche non indifferenti, derivanti dalle concessioni e dallo sfruttamento agricolo di terreni di sua proprietà: non si tratta solo del mero esercizio di un legittimo diritto di proprietà da parte dell’ente ma, leggendo questo dato in una prospettiva storica e culturale, l’incameramento annuale di decine di «tomoli di grano» non garantiva solo un’ottima rendita economica (chiamata ancora con l’antico termine dal sapore feudale «beneficio») perché significava trascinarsi un atavico retaggio, l’ultima, flebile traccia del potere temporale della Chiesa nella comunità torese. Le opere d’arte che oggi la chiesa del SS. Salvatore di Toro custodisce e che perciò sono scampate a tutte le peripezie dei secoli passati sono, oltre al fonte battesimale e alle basi di colonne già menzionati: una ritoccata statua lignea della Madonna col Bambino del XV secolo, un crocifisso ligneo seicentesco, la pregevole tela della Madonna del Rosario attribuita a Giuseppe Castellano , un pittore oggi forse poco noto ma attivo fra Napoli (dove divenne per un certo periodo capo della corporazione cittadina dei pittori), Benevento e Roma in virtù della protezione accordatagli proprio da Vincenzo Maria Orsini. In seguito, nella chiesa si può ammirare anche il tondo di San Gaetano Thiene, opera attribuita al famoso pittore settecentesco di Oratino (CB) Ciriaco Brunetti . La parete di fondo dell’abside ospita attualmente un quadro seicentesco che fortunatamente si è conservato fino a noi: dipinto ad olio su tavola lignea, raffigura la Madonna di Costantinopoli tra San Francesco d’Assisi e San Nicola di Bari. La raffinata statua della Madonna col Bambino reca, fortunatamente, la data d’esecuzione (1719) e la firma del suo scultore: si tratta del famoso Carmine Latessa di Oratino e purtroppo oggi la statua manca ancora del Bambino Gesù, sacrilegamente rubato nel 1975. Infine, ultima notevole opera d’arte della chiesa madre di Toro, nell’ufficio parrocchiale, a cui si accede dalla cappella di San Michele, si trova un grande quadro settecentesco (olio su tela) raffigurante San Mercurio, l’amato patrono di Toro, mentre uccide con la lancia l’imperatore romano tardoantico Giuliano l’Apostata, purtroppo di ignota paternità.

Capitolo II – L’atto notarile 

Le varie ricerche condotte presso l’Archivio di Stato di Campobasso hanno portato alla scoperta di un atto notarile settecentesco davvero importante per la comunità torese: un documento relativo alla commissione di un organo da parte dell’arciprete di Toro, D. Carlo Magno, per la chiesa madre del Santissimo Salvatore. Il notaio in questione è Domenico Boccaccio, che redige il contratto in data 15 marzo 1731, infatti l’incipit afferma: «Die decima quinta mensis martii nonae inditionis millesimo septicentesimo trigesimo primo in terra Thori provinciae comitatus molisii»[1]. L’atto continua:

Constituitis in nostri praesentia magnifico Innocentio Gallo organista civitatis Neapolis habitante[2], et commorante in civitate Fogiae agente ad infrascripta omnia pro se, suisque haeredibus, et successoribus per una parte; et administratorem reverendissimo Don Carolo Magno archipresbitero praedictae terrae Thori, consensiente in nos agente et intervenente similiter ad infrascripta omnia pro se, quae nomine, et prò parte archipresbiteralis ecclesiae sub titulo Sanctissimi Salvatoris eiusdem terrae, et successoribus per parte altera. Praefactae vero partes dictis nominibus sponte aspexuerunt coram nobis citereas dictis nominibus fuisse factam infrascriptam convenctionem super confectione novi organi eiusdem Ecclesiae in vulgari sermone prò maiori intelligentia […].[3]

Innocenzo Gallo è l’artista (nato a Roma[4] e dimorante nella città di Foggia) che viene incaricato di fabbricare l’organo per la chiesa madre di Toro. Il desiderio dei committenti settecenteschi di avere strumenti sempre più ricercati e in perfette condizioni portava alla sostituzione degli organi costruiti in precedenza con altri di nuova fattura e che spesso, ampliati, inglobavano parte del materiale antico dato in permuta all’organaro incaricato della nuova opera.[5] Toro è uno di questi casi, infatti, dagli Inventarii de Luoghi pii dell’anno 1699 e del 1702 fatti redigere dal cardinale Vincenzo Maria Orsini, secondo la lettura di G. Mascia, si evince che:

Sopra il coro, si levava un coretto con gelosie di legno dipinto sul quale era installato un organo a otto registri, che nell’Inventario è definito “famosissimo”.[6]

L’organo in questione è, chiaramente, quello precedente allo strumento commissionato dal Gallo. La Capitanata, come tutta la Puglia, ha da sempre vissuto intensi legami con Napoli e le testimonianze artistiche che sono tuttora sotto i nostri occhi confermano la capillarità della diffusione nel territorio del linguaggio barocco napoletano. L’arte organaria in Puglia risale già alla metà del XV secolo e in Capitanata è storicamente attestata nel primo Seicento, anche se mancano dati precisi riguardo alle caratteristiche puramente tecniche degli strumenti. Questo testimonia l’estrema vitalità delle Cappelle musicali ecclesiastiche della regione, dalle basiliche più grandi alle chiese dei centri più piccoli e più remoti, dove ancora oggi è possibile trovare segni di un luminoso passato. Gli organi antichi sopravvissuti, insieme alle rappresentazioni iconografiche musicali, ne rappresentano le tracce più significative. Il Mezzogiorno, sottoposto al dominio spagnolo, vivendo un periodo di decadenza politica, avrebbe avuto tutte le giustificazioni per manifestarsi sterile anche dal punto di vista artistico. E invece, sorprendentemente, tutta l’area seppe esprimere delle grandissime individualità in ogni campo, dalla letteratura alla poesia, alle arti figurative, agli studi filosofici e anche, appunto, all’arte di costruire gli organi. A Napoli gli artigiani dediti alla costruzione di organi tra Seicento e Settecento erano talmente numerosi da avere una strada tutta loro nei pressi della chiesa dell’Annunziata, chiamata appunto “via degli Organari”. È quindi in questo clima che fioriscono le famose botteghe dei De Franco, dei De Biase, dei Tondo e poi quelle dei De Martino, dei Cimino, dei Gallo, dei Mancino e di Domenico Antonio Rossi, tanto per citarne alcune tra le più importanti. Nel Settecento l’attività organaria in provincia di Foggia era molto fiorente: ciò non tanto per la presenza, pur attestata, di maestranze locali, quanto per le opere realizzate da importanti organari provenienti dalla capitale del viceregno. Per fortuna, o forse sarebbe meglio dire per miracolo, alcune di queste sono sopravvissute soprattutto grazie alla lungimiranza degli uomini che le hanno avute in custodia. Nel XVIII secolo la domanda da parte dei luoghi di culto era talmente alta che, accanto a strumenti di scuola napoletana cominciarono ad apparire anche manufatti di maestri locali che avevano appreso l’arte nella capitale. Già dal 1725, infatti, è attestata a Foggia la presenza dell’organaro di origini romane Innocenzo Gallo, che decise di impiantare una bottega proprio in città. Suoi organi importanti si trovano a San Severo (chiesa di San Nicola, 1742 e chiesa di San Severino, 1750), Lucera (chiesa della Pietà, 1743), Peschici[7] (chiesa del Purgatorio, 1767), uno a Ischitella (FG), uno a Carpino (FG) ed uno a Manfredonia (FG). Di suo figlio Giovanni, invece, sono i due unici strumenti storici del capoluogo: San Rocco (1778) e Addolorata (1801). Non sono però solo Innocenzo e Giovanni ad aver lavorato in Capitanata. Di Mauro Gallo è l’organo di S. Maria della Rocca a Casalnuovo Monterotaro (datato 1746), attualmente smontato in seguito al terremoto del 2002, mentre di Joseph Gallo è lo strumento del 1785, recentemente restaurato, che si trova nella chiesa di S. Maria delle Grazie a San Nicandro Garganico. Questi ultimi, la cui parentela con Innocenzo non è accertata, operarono anche in altre regioni.[8] L’organo di Toro sembrerebbe, a livello cronologico, una delle testimonianze più antiche della produzione di Innocenzo Gallo (datata agli anni ’30 del Settecento), anche se non abbiamo la certezza che questo organo torese sia stato poi effettivamente realizzato. Il documento continua:

Che detto signore Innocenzo sia tenuto, s’income promette fare l’organo nuovo di detta chiesa, s’income, ed in quel modo stà fatto quello della matrice chiesa di Campolieto […].[9]

L’artista promette di fare l’organo seguendo lo stile e la struttura di quello della chiesa madre di Campolieto (CB), intitolata a San Michele Arcangelo. Attualmente la chiesa non conserva più l’organo settecentesco, ma uno di fattura novecentesca. Probabilmente è andato distrutto a causa di eventi sismici, oppure è stato venduto dai sacerdoti per esigenze economiche. L’organo attuale è posizionato sulla cantoria.

Il notaio Boccaccio prosegue:

[…] di nove registri[10], con la mostra[11] anteriore di canne venti cinque di stagno fino, la prima delle quali, detta C. Sal. F. ut ripartite in trè mitre[12], in ciascheduna delli quali, la cimetta d’intaglio[13], le cascate parimente d’intaglio[14], frà le quali mitre, e nelli due lati estremi i pilastretti a cornice[15], sotto delle quali, la basetta[16], e sopra il capitello lavorati d’intaglio, di sopra il cornicione[17], e sopra il medesimo un medaglione, in cui vi sia scolpito d’intaglio il Santissimo Nome di Giesù, la cornice sotto la pesa delle canne[18], di mostra indorata, e tutti li lavori detti di sopra parimente indorati, d’argento misturato, ed imbrunito[19], la tastiatura[20] di busso[21], e li negri[22] con la sopraficie[23] d’ebano, sopra d’essa un quadretto ad’oglio del Santo Profeta Davide, tutto il rimanente della cassa di mantici[24], ed organo istesso pittato[25] ad oglio à colore celeste, con le porte d’avanti[26] anche pittate ad oglio à genio di detto Innocenzo, due mantici all’uso moderno, con farci il tiro tutto all’uso moderno, che sono in tutto bastoncini[27] dieci.[28]

La descrizione del notaio è molto dettagliata: interessanti sono i materiali pregiati utilizzati per la costruzione dell’organo (oro, argento, ebano) e particolare attenzione va mostrata al minuzioso lavoro di intagliatura del legno, procedura estremamente complessa che era prevista per la gran parte della superficie dello strumento. Particolarmente significativa risulta, infine, la tecnica della pittura ad olio, utilizzata per le superfici e per il quadro con l’immagine del re d’Israele Davide.

Il documento notarile va avanti:

Quale organo detto signore Innocenzo sia tenuto, come promette perfezzionarlo, e compirlo nella detta città di Foggia per tutto il mese di luglio, prossimo venturo del corrente anno 1731. Item s’obbliga detto signore Innocenzo assicurare detto organo per’ un’anno, nel quale anno, che verrà ad’accordarlo, e spolverizzarlo sia obligato detto signore arciprete mandarli la cavalcatoia[29], e nel tempo si trattenerà per detto organo, debbia somministrarli le spese cibarie, stanza, e letto tantum, e non altro. Item detto signore Innocenzo s’obbliga vita sua durante, e di […] arciprete tenere l’appaldo per l’accomodo di detto organo, quale ogni trè anni lo debbia scomponere, e ricomponere, e farvi quanto vi bisogna, e nel tempo verrà, detto signore arciprete sia tenuto somministrarli le spese, stanza, e letto, e pagare ogn’anno per detto appaldo carlini venti. Versa vice[30] detto signore arciprete nel nome di sopra s’obliga pagare a detto signore Innocenzo per la confezzione[31] di detto organo docati cento, di moneta corrente d’argento, delli quali docati cento, in nostra presenza detto signore Innocenzo ne’ riceve da detto signore arciprete presente manualmente, et per verbum sonans docati trentacinque di moneta d’argento, ed il restante docati sessanta cinque promette, e s’obliga detto signore arciprete pagarli in due paghe a detto signore Innocenzo presente hoc modo […] docati trentacinque per tutto il mese di maggio prossimo venturo del detto corrente anno 1731 ed il restante docati trenta pagarli per tutto il mese di Luglio, prossimo venturo di detto anno 1731. E proprio quando detto signore Innocenzo averà[32] compito, perfezzionato, e composto detto organo nella cantoria di detta chiesa. Item promette, e s’obbliga detto signore arciprete mandare a pigliare intiero detto organo a sue spese nella suddetta città di Foggia, come anche in nostra presenza li dà, e consegna tutto il materiale dell’antico organo, che stava in detta chiesa per essere così convenuti.[33]

L’artista fabbricherà quindi questo organo nella città di Foggia, dove aveva la bottega, durante tutto il mese di luglio dell’anno 1731. Egli, inoltre, avrà il compito (per un anno) di raggiungere il paese di Toro per procedere alla manutenzione dello strumento musicale (accordatura e spolvero) tramite un “mezzo di trasporto” offertogli dall’arciprete D. Carlo Magno; quest’ultimo dovrà anche dare al Gallo il vitto e l’alloggio. Ogni tre anni l’artista dovrà smontare e ricomporre l’organo per esigenze funzionali, sempre tutto a spese dell’arciprete: lo strumento costerà al Magno cento ducati, pagati in più rate. L’oggetto, preso di persona dall’arciprete nella città di Foggia, sarà poi posizionato nella cantoria della chiesa del Santissimo Salvatore. L’atto si conclude così:

Et promiserunt, et convenerunt dictae partes, et quaelibet ipsarum dictis nominibus sollemni stipulatione per una pars […] alteri, et altera alteri dictis nominibus respectui […] supra praesentibus convenctionem, pacta, et promissiones potest […]; hac omnia praedicta per sempér per habere per ratas per hac rata per et contra non facere aliqua ratione; prò quibus omnibus observandis per ambae partes ipsae, et quaelibet ipsarum prout ad unamquamque ipsarum pertinet, et spectat sponté obligaverunt se ipsas partes, et quam libet ipsarum, earumque, et cuiuslibet ipsam […] haeredis, et successores, et bona omnia per respectivi, una paio alteri praesentibus per sub poena dupli per medesimae […] cumposte capiendi per praecariis constituita per renunciaverunt per iuraverunt in forma; praesentibus Dominico Evangelista regio ad vita iudice ad contractus, reverendo Don Iacobo de Quicquaro, reverendo Don Iosepho Polito, reverendo Don Leonardo Fasciano, Paulo Serpone litterato, Nicolao Capalozza litterato, Antonio Colia, Leonardo Partiale, Silvestro Pantano, et Iosepho Salvatore omnibus dictae terrae Thori ad hoc specialiter vocatis, et rogatis prò testibus.[34]

L’atto si conclude con le consuete formule latine finali e i testimoni dell’atto: il giudice Domenico Evangelista, il rev. Don Iacopo de Quicquaro, il rev. Don Giuseppe Polito, il rev. Don Leonardo Fasciano, Paolo Serpone, Nicola Capalozza, Antonio Colia, Leonardo Parziale, Silvestro Pantano e Giuseppe Salvatore, tutti provenienti da Toro.


[1] ASCb, Fondo Protocolli Notarili, Domenico Boccaccio, Toro, 1731.

[2] Con Neapolis habitante, probabilmente, si indicava una determinata condizione di soggiorno per le persone che venivano da “fuori regno”.

[3] Ibid.

[4] Notizia biografica tratta dal sito web www.quotidiano.net, il tutto è consultabile al seguente link: ˂https://www.immediato.net/2017/12/07/lorgano-della-chiesa-della-pieta-di-lucera-torna-a-suonare-evento-col-maestro-di-lernia/˃.

[5] AA. VV., Il restauro dell’organo a canna Domenico Antonio Rossi 1775 Deliceto, Foggia, Fondazione Banca del Monte Domenico Siniscalco Ceci, 2011, p. 29.

[6] G. MASCIA, La chiesa del Santissimo Salvatore a Toro, Campobasso, Editrice Lampo, 1997, p. 26.

[7] Sul restauro dell’organo di Peschici si veda l’articolo al seguente link: ˂file:///C:/Users/Utente/Desktop/Organo%20Toro/PESCHICI,%20UNA%20MOSTRA%20DEI%20FRAMMICHELE%20PE…RE%20LA%20CHIESA%20DEL%20PURGATORIO%20_%20Facebook.pdf˃

[8] AA. VV., Il restauro dell’organo a canna Domenico Antonio Rossi 1775 Deliceto, Foggia, Fondazione Banca del Monte Domenico Siniscalco Ceci, 2011, pp. 27-28-29.

[9] ASCb, Fondo Protocolli Notarili, Domenico Boccaccio, Toro, 1731.

[10] «Le diverse file di canne vengono selezionate attraverso i tiranti dei registri. Questi vengono impiegati dall’organista per variare il timbro dello strumento in parte secondo le indicazioni della partitura, molto spesso secondo le circostanze e la personale sensibilità. L’insieme dei registri di un organo, riferito alla loro appartenenza rispetto alle varie tastiere e alla pedaliera, si chiama disposizione fonica». Definizione tratta dal sito web www.wikipedia.org, il tutto è consultabile al seguente link:

https://it.wikipedia.org/wiki/Organo_a_canne

[11] La mostra (o facciata) è la parte anteriore visibile dell’organo (le canne), in questo caso composta da canne di stagno fino.

[12] Per mitra si intende lo scompartimento della facciata dell’organo.

[13] Con cimetta intagliata si fa riferimento, probabilmente, ad elementi decorativi posti nel bordo superiore della facciata.

[14] Con cascate si fa riferimento, probabilmente, a degli elementi decorativi che pendono verso il basso.

[15] Con pilastretti si fa riferimento ad alcuni elementi verticali dell’organo, sempre utilizzati a scopo decorativo e che simulano appunto dei piccoli pilastri.

[16] Con basetta si intende il plinto del pilastro.

[17] Elemento disposto al di sopra del capitello, sempre a scopo decorativo.

[18] Elemento decorativo modanato disposto al di sotto delle canne dell’organo.

[19] Con riferimento al processo della brunitura.

[20] Si intende tastiera.

[21] Si intende il legno di bosso.

[22] Si intendono i tasi neri.

[23] Si intende superficie.

[24] «Contenitore a volume variabile, destinato a generare l’aria necessaria all’organo oppure a mantenerla a pressione costante». Negli organi antichi la quantità di mantici era regolata dalla grandezza dell’organo, infatti più l’organo era grande e maggiore era il numero di mantici necessari. In questo caso sono esterni.

[25] Si intende dipinto.

[26] L’organo doveva essere provvisto di due ante nella facciata.

[27] Con bastoncini si intendono, probabilmente, i pomelli a tiro che comandano i registri dell’organo.

[28] ASCb, Fondo Protocolli Notarili, Domenico Boccaccio, Toro, 1731.

[29] Si intende il mezzo di trasporto.

[30] Si intende viceversa.

[31] Si intende composizione.

[32] Si intenda avrà.

[33] ASCb, Fondo Protocolli Notarili, Domenico Boccaccio, Toro, 1731.

[34] Ibid.

Capitolo III – Gli organi di Innocenzo Gallo e notizie biografiche 

L’artista Innocenzo Gallo, grazie alla sua prolifica bottega situata a Foggia, ci ha lasciato alcuni organi che si sono conservati in maniera discreta, seppur con qualche lacuna. Per ricostruire quello torese, graficamente e nella maniera più fedele possibile alla descrizione dell’atto notarile, possiamo servirci di una parte della produzione “sopravvissuta” dell’artista. In ordine cronologico, il primo da prendere in considerazione è quello situato nella chiesa di San Nicola, a San Severo (FG), datato 1742. L’organo è costituito da tre scompartimenti, come doveva essere quello di Toro, con più di venti canne nella facciata. Gli scompartimenti sono divisi da due coppie di pilastrini con plinti semplici e capitelli intagliati. La sezione centrale è più alta delle due laterali; lungo i tre archi si scorgono le cascate e le cimette intagliate e dorate, come quelle toresi, che hanno motivi a girali. La parte superiore della cornice, infine, ha delle volute che danno un senso di leggerezza a tutta la struttura, rendendola anche consona ai dettami dello stile barocco. Il tutto è dipinto con un colore beige, mentre lungo le modanature l’organo è rifinito con dorature. Nella stessa città vi è un’altra testimonianza della produzione del Gallo, chiaramente di sublime bellezza, la quale è conservata all’interno della chiesa (di origini basso medievali) di San Severino. L’organo è datato al 1750, otto anni dopo del precedente; l’adesione agli stilemi del barocco è denunciata sia dalla monumentalità sia dalla ricchezza delle decorazioni, le quali hanno una tendenza al movimento, all’energia e all’enfasi. Lo strumento, come il precedente, è suddiviso in tre scompartimenti con circa venticinque canne in mostra. Come di consueto gli spazi sono regolati da due coppie di pilastrini con plinti e capitelli dorati e intagliati; non mancano le cimette e le cascate, elementi decorativi tipici dello stile barocco. Particolarmente lavorata ad intaglio, in un gioco di intrecci vorticosi, risulta la decorazione al di sopra del cornicione dello strumento. Interessante, inoltre, il corpo separato detto capocielo, sempre intagliato e dorato, posizionato al di sopra dello strumento. Quest’ultimo, infine, è dipinto di azzurro (come doveva essere decorato quello di Toro) con modanature dorate. A Peschici, nella chiesa del Purgatorio, vi è un altro organo del Gallo datato al 1767. Le condizioni in cui versa lo strumento non sono ottimali, infatti manca tutta la metà inferiore. Nonostante questo abbiamo un organo di ottima fattura, con la firma dell’artista e la data «Innocentius gallo f(ecit) foggie addi 1767» dipinte su un cartiglio al di sopra della tastiera. Secondo uno studio svolto da Teresa Maria Rauzino e pubblicato sul quotidiano “L’Attacco” (28 settembre 2018) a segnalare la presenza di questo organo, il 18 agosto 1998 su “Il Quotidiano di Foggia”, fu lo storico Gennaro Arbore (cugino di Renzo) che scrisse: «La costruzione dello strumento musicale, su incarico della Congregazione del Purgatorio, fu eseguita nel 1767 dall’organaro Innocenzo Gallo il quale, romano di nascita, si era trasferito a Foggia». Abbiamo, inoltre, una descrizione dell’organo dello stesso Arbore:

Il prospetto è diviso in tre comparti ad arco, dei quali quello centrale è più alto, lavorati con ricche decorazioni a conchigliette e a volute, apparentemente simmetriche, ma in realtà una diversa dall’altra, che lasciano in mostra, anche con bell’effetto estetico, le canne metalliche. Queste sono disposte, in ogni comparto, con andamento piramidale. Sopra i tre comparti architrave, cornice e cimasa. La cimasa, di legno intagliato di sapore barocco e rivestita di lamine d’oro, presenta al centro un teschio, che rappresenta l’emblema della Congregazione. La doratura e l’ornamentazione a motivi floreali che si diffondono per tutta la struttura lignea, si conservano in tutta la loro luminosità e freschezza. Sono scomparse le due ante di chiusura certamente esistenti originariamente come testimonia la presenza delle cerniere laterali. L’organo fu alienato circa vent’anni fa (40 anni fa) a un collezionista. Fortunatamente dopo una lunga controversia giudiziaria, la vendita è stata annullata ed il possesso dello strumento è stato assegnato definitivamente alla Congregazione […].[1]

Lo studio della Rauzino continua dicendo che sono state rinvenute altre notizie interessanti sull’«organaro» Innocenzo Gallo, nato (forse) a Roma intorno al 1701, e residente a Foggia nel 1741. Nell’emeroteca digitale salentina, infatti, un documento ci informa che:

«Nel Catasto onciario di Foggia dell’anno 1741, (fol. 271), è registrato con la sua famiglia tra i forastieri abitanti laici (Fuoco 2447), Innocenzio Gallo romano quondam Carlo, organaro, d’anni 40. Vittoria Esperti, moglie d’anni 35; Serafina, figlia, d’anni 15; Eufrosina, figlia, d’anni 4; Miralda, figlia, d’anni 3; Giovanni, d’anni 1. Ius abitationis, once 1,50. Possiede un cavallo, valutata la rendita annui carlini dieci, sono 1,20» (Archivio di Stato di Napoli).[2]

Giuseppina d’Arcangelo, della Soprintendenza archivistica della Puglia, precisa che Innocenzo Gallo è un «organaro» ancora poco indagato del Settecento, romano di origine e operante a Foggia: l’unico “forestiero” non napoletano e proveniente da un’importante città “italiana”, trasferitosi in Puglia. Spostatosi con una donna di Biccari (FG), ha un figlio di nome Giuseppe Maria, che farà parte della sua bottega, e non è legato da parentela a Mauro Gallo coevo e a Giuseppe Gallo che si firma napoletano e opera nel Salento. La D’Arcangelo ha censito sei organi a canne di Innocenzo Gallo: due a San Severo, uno a Peschici, uno a Ischitella, uno a Carpino ed uno a Manfredonia. A questi possiamo aggiungere quello di Toro, anche se solamente documentato negli atti notarili e non arrivato fino ai nostri giorni. Non sappiamo neanche se effettivamente lo strumento torese è stato davvero costruito. La cosa importante da sottolineare, però, è l’importanza di questo artista che ha varcato i confini della Capitanata per giungere ad ottenere committenze anche nella nostra piccola realtà. Tornando agli strumenti del Gallo prodotti per le città della Capitanata, infine, va ricordato l’organo conservato nella chiesa della Madonna della Pietà di Lucera. Esso si erge al di sotto di uno splendido soffitto ligneo dipinto, sulla balaustra della cantoria. Come i precedenti è suddiviso in tre scompartimenti con due coppie di pilastrini; plinti e capitelli sono finemente intagliati e dorati. Lungo i pilastrini corrono delle decorazioni dipinte a racemi. La facciata ospita più di venti canne. Presenti anche le cimette e le cascate intagliate e dorate, sempre a motivi girali e vegetali. Al di sopra del cornicione una cimasa intagliata e dorata con uno stemma dell’ordine francescano (lo stesso stemma risulta essere presente anche lungo la balaustra della cantoria). L’organo, infine, è dipinto di verde con le modanature dorate.


[1] Tratto dal saggio Nella chiesa del Purgatorio è da restaurare anche un raro “organo a canne” di Innocenzo Gallo, su L’Attacco, a cura di T. M. RAUZINO, 28 settembre 2018.

[2] Ibid.

Bibliografia

ADCb, Fondo documentario di Toro, Toro, 1948.

ASCb, Fondo Protocolli Notarili, Domenico Boccaccio, Toro, 1731.

  1. VV., Il restauro dell’organo a canna Domenico Antonio Rossi 1775 Deliceto, Foggia, Fondazione Banca del Monte Domenico Siniscalco Ceci, 2011.
  2. VV., “Inventario dei Luoghi Pii della Terra di Toro”, Biblioteca “Padre Dionisio Piccirilli”, Convento di San Giovanni Battista, Campobasso.
  3. VV., Oratino, pittori, scultori e botteghe artigiane tra il XVII e XIX secolo, Napoli, Arte Tipografica, 1993.
  4. MASCIA, La chiesa del Santissimo Salvatore a Toro, Campobasso, Editrice Lampo, 1997.

Nella chiesa del Purgatorio è da restaurare anche un raro “organo a canne” di Innocenzo Gallo, su L’Attacco, a cura di T. M. RAUZINO, 28 settembre 2018.

  1. MASCIA, Il castello di Toro, un castello sui generis?, Atti del convegno “I castelli del Molise”, Campobasso, 30 gennaio 2015.
  2. S. POLI, Memoria sul tremuoto de’26 Luglio del corrente anno 1805, Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1806.
  3. VANNOZZI, La donazione del castrum di Toro del 1090, in ArcheoMolise, a. III, n.11, aprile – giugno 2012.

Sitografia

http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-castellano_(Dizionario-Biografico)/

https://www.immediato.net/2017/12/07/lorgano-della-chiesa-della-pieta-di-lucera-torna-a-suonare-evento-col-maestro-di-lernia/

https://it.wikipedia.org/wiki/Organo_a_canne

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