Guardo il cerchio del Teatro Savoia, i palchi illuminati, il maestoso affresco che adorna il soffitto. Da sopra tutto è bello, elegante, illuminato. Gli stucchi intatti, bianchi, immacolati, le maschere fiere, i legni ricoperti di un velo d’oro, i velluti rossi pettinati e puliti, le sedie e gli sgabelli al loro posto, allineati come soldati pronti agli onori militari. Ogni cosa è in ordine, al proprio posto. Il personale del teatro ha curato ogni dettaglio in maniera impeccabile. Oggi si ricomincia, le porte si aprono e dentro al Savoia torna il soffio della vita. I proiettori sono già puntati sul palco, le luci calde e arancioni. Questa sera suona Danilo Rea, un concerto per solo piano che mescola l’Opera, le arie, le romanze, al Jazz e all’improvvisazione. “Liricamente, Opera in Jazz”, è questo il titolo dello spettacolo. Sembra un giorno di festa e lo è. Sembra non sia successo nulla, per un istante marzo è solo una curva che ci siamo lasciati alle spalle, un angolo nella memoria. Il ricordo di un brutto sogno che dalla piccionaia di un teatro appare finito. Sono dovuto andare su, nell’ultimo giro di posti, per capire con gli occhi fin dove si è spinta la ferita del Covid. Solo guardando dall’alto in basso posso capire quanto sia profondo il taglio che ha messo in ginocchio il mondo. Un demone che ci ha tolto più del fiato la speranza. Giù la platea è un mare di cerchi rossi con la scritta no sitting, vietato sedersi. La ferita è sotto di me, quel rosso è il segno che qualcosa è successo, che non siamo più gli stessi e che non lo saremo mai. Mi metto le mani sugli occhi, poi le tolgo e quel rosso di sangue si trasforma in rosso che oggi offre una speranza. Oggi si riparte, le porte del teatro si spalancano, cominciano a entrare gli spettatori, persone che riprendono lentamente un cammino interrotto. Tutti hanno sul volto una maschera, una benda che però lascia liberi gli occhi, e negli occhi c’è la luce di chi non si è arreso. Siamo stati a digiuno di baci, di abbracci, di strette di mano, a digiuno di viaggi e cammini, siamo stati separati, lontani, distanti, come se un muro invisibile avesse fatto della nostra vita una Berlino piena di nebbie e malinconie nascoste, ma non ci siamo arresi. La 52^ stagione concertistica organizzata dalla benemerita associazione “Amici della Musica – Walter De Angelis” (con la collaborazione della Fondazione Molise Cultura) è la prova che il filo della vita può essere sempre riannodato, che quando una luce si spegne ce n’è sempre un’altra che può essere accesa. Basta volerlo. C’è la tenacia, la sana ostinazione di chi non si arrende dietro ai ventidue concerti in programma da ottobre a marzo, un cartellone ricco che attraversa i generi e gli stili cari al sodalizio che dal 1969 ha offerto al pubblico molisano (e non solo) oltre mille concerti: musica cameristica, opera, musica antica e poi le contaminazioni, come quella proposta nella serata che apre la stagione. Un opening act che sta tutto nelle mani e nel virtuosismo di Danilo Rea, Maestro e punto di riferimento della scena Jazz italiana. Una lunga carriera alle spalle, quarantacinque anni di attività che lo hanno portato dalla musica classica, al “Progressive” (con i New Perigeo), all’approdo finale al Jazz. Collaborazioni di altissimo profilo, da Chet Baker a Mina, con la quale lavora costantemente da tantissimi anni. E poi nel mezzo Gato Barbieri, Luis Bacalov, Lee Konitz, Enrico Rava,  Paolo Fresu, Alfonso Gatto, Pino Daniele, Renato Zero, Gino Paoli. Titolare della cattedra Jazz al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, una carriera luminosa costellata di successi legati a quella sua innata capacità di mescolare generi diversi, dal pop al rock all’Opera, e rileggerli in chiave di improvvisazione Jazz. Dai Beatles ai Rolling Stones, da Mina a Fabrizio De Andrè, un percorso di contaminazione che ha prodotto risultati straordinari. Come di straordinaria bellezza è stato lo spettacolo proposto al Savoia. Applausi a scena aperta alla fine di ogni esecuzione, lunghissime improvvisazioni al piano che hanno mescolato le arie di Puccini e Bizet, Mascagni, Verdi e Donizetti al funambolismo della musica Jazz. Una regia segreta e inventata al momento capace di tenere sempre la melodia fissa, sul fondo, pronta a riemergere in superficie come un fiume carsico per poi tuffarsi nuovamente nelle profondità dell’armonia e dell’improvvisazione. E poi il finale, da brivido. Due bis che congedano il Maestro da un pubblico letteralmente in estasi per la coppia di esecuzioni finali. “La canzone di Marinella”, omaggio a Fabrizio De Andrè, e poi “Summertime” di George Gershwin mescolata a “Here Comes The Sun” dei Beatles e del mai dimenticato George Harrison.

C’è un luogo che sta al di là della sconfitta dove, in certe ore fortunate, la resa si trasforma in salvezza. Le porte del Savoia si aprono, le persone tornano a casa. Quella passata in compagnia di Danilo Rea è stata un’ora e mezza di fortuna. Ci siamo rialzati, ci stiamo rialzando. Salgo di nuovo nell’ultimo ordine di posti e guardo sul fondo la platea. Gli spazi vuoti non lo sono più, a riempirli c’ha pensato la musica.