Mi trovo a Firenze, all’imbocco di via del Melarancio, nel popoloso borgo San Lorenzo, quando la mia attenzione viene attratta da una lapide affissa su un bel palazzo di stile classico. La lapide è in latino, cosa che mi lascia pensare a qualcosa di particolarmente importante, e il nome della donna menzionata che qui abitava, Candida Quirina Mocenni, non mi è nuovo, devo averlo letto da qualche parte. Mentre mi accingo a decodificare la scritta resto calamitata davanti al nome del mito assoluto di generazioni di liceali, me compresa, il poeta-soldato di cui non mi stancavo mai di leggere le opere: Ugo Foscolo.

Lui, il mio mito, chiamava questa Quirina Mocenni, che era uno spirito colto e sensibile all’arte – dice la lapide – Donna Gentile. Sfoglio mentalmente i miei ricordi scolastici, mi affiorano immediatamente i nomi delle due gentildonne che gli avevano ispirato i versi studiati da noi adolescenti, e cioè l’amica risanata Antonietta Fagnani Arese, famosa contessa milanese, e Luigia Pallavicini, quella caduta da cavallo, per intenderci. Mentre stavamo curve sull’antologia della letteratura italiana, noi ragazze eravamo un po’ gelose di quelle dame che avevano avuto la buona sorte di incrociare il poeta di Zacinto, ed avevamo il fondato sospetto che tra lui e loro ci doveva essere stato, all’epoca, del tenero. Infatti, in seguito, scavando più a fondo, avevamo scoperto che la contessa Fagnani non aveva solo tradotto per Foscolo il Werther di Goethe, perché l’epistolario intercorso tra i due documenta un amore violento durato due anni, tra il 1801 e il 1803.

Niente di strano, ragiono mentre leggo la lapide, che anche questa “Donna Gentile” sia stata vittima del fascino un po’ tenebroso del Foscolo, che, con il suo aspetto di eroe romantico impetuoso e inquieto, i capelli rossi e ricci al vento, il pastrano verde, aveva fatto sognare chissà quante donne! Ma c’è dell’altro, perché, andando avanti nella decodifica del testo latino, leggo che lei era ammirata per le sue qualità nientemeno che da Vittorio Alfieri, Giovan Battista Niccolini, Gino Capponi, Leopoldo Cicognara, Silvio Pellico, e che fu di grande aiuto al poeta dei Sepolcri.

La temperie tumultuosa che evocano questi personaggi di grande profilo culturale e politico vissuti nell’Italia risorgimentale in una delle nostre regioni più evolute, risveglia il mio desiderio di indagine, di saperne di più, di conoscere la personalità della gentildonna toscana e l’ambiente in cui si è mossa, di penetrare nella sua vita, soprattutto mi intriga capire in che modo la sua esistenza è stata attraversata da quel ciclone che, nella mia immaginazione, doveva essere Foscolo.

Quirina è stata un’insignificante avventura nell’elenco fin troppo nutrito degli amori del poeta, oppure ha rappresentato davvero, come lascia intuire la lapide, un punto di riferimento sicuro nella sua esistenza? E’ così che ho cercato di saperne di più.

Firenze, autunno 1812. Mentre si trovava tra Ponte Vecchio e il Mercato Nuovo, la gentildonna Quirina Mocenni maritata Magiotti vide di sfuggita colui che “mi fece battere il cuore con tanta veemenza! E allora non ti conoscevo, e allora parlò il cuore prima della testa…”

Chi è davvero questa donna? E perché il poeta si trova a Firenze? Lei (Siena, 25.6.1781) ha trentun’ anni, e non è più la fanciulla dolce, elegante e pettinata alla moda che vediamo in un ritratto del 1833 custodito a Palazzo Pitti. Quirina vi è ripresa seduta su una poltroncina stile Impero, mentre accarezza il suo cagnolino, simbolo di fedeltà; nella destra stringe un libro, cosa che indica il suo amore per la poesia.

Luisa Stolberg, contessa d’Albany (Mons, 1752- Firenze, 1824), che era amica intima dell’affascinante madre di Quirina, Teresa Regoli, nelle sue lettere la descrive spesso, ma sempre con scarsa tenerezza. Infatti nella lettera del 19 marzo1803 scrive all’amico Ansano Luti:

“..ella non è carina e il suo colorito non è bello; non ha che la giovinezza”; prima ancora (lettera a Luti del 11.12.1802) : “Ella assomiglia poco a sua madre, e non è graziosa, ma ben fatta”.

La verità è che la malattia di Teresa Regoli che, assieme alle numerose gravidanze, ne minò la salute fino a portarla alla tomba ad appena cinquant’anni, condizionò la vita della figlia Quirina, a cominciare dal nome che le era stato imposto alla nascita, in omaggio al suo padrino di battesimo, il senatore veneto Angiolo di Lauro Quirini.

La ragazza, seconda di sette figli, era cresciuta con i suoi fratelli in una famiglia senese molto benestante, in un ambiente ricco di stimoli, ed era stata istruita presso le suore del conservatorio di Santa Maria Maddalena. Persona sensibile e colta, nutriva interessi simili a quelli della madre, che aveva tenuto a Siena un importante salotto frequentato da Vittorio Alfieri e da alcuni esponenti della rinascita culturale senese. Salotto dove non compariva mai il padre di Quirina, Ansano, facoltoso mercante tessile, proprietario di poderi e di bestiame, il quale non vedeva di buon occhio lo stuolo di intellettuali che frequentavano la sua dimora e facevano da cavalieri serventi alla bella Teresa. E lui reagiva nel peggiore dei modi, mostrando agli habitué un lato gretto e irascibile, e “punendo”la moglie con gravidanze continue.

Questi salotti, circoli culturali molto in voga nell’Ottocento, erano sorti nel secolo precedente, con il diffondersi del movimento letterario dell’Arcadia, sull’esempio dei salon parigini. Vi primeggiano figure femminili dotate di forte ascendente mondano-culturale. A Milano come a Napoli i salotti diventano luoghi di ritrovo in cui la donna può finalmente conversare, intrattenere, esprimere la propria opinione. Nel granducato di Toscana la costante presenza di grandi personalità femminili che costituiscono un punto di attrazione e di aggregamento per la vita letteraria fa di questi cenacoli un laboratorio di nuove idee e di innovative posizioni politiche, vero centro propulsore di spiriti aperti e cosmopoliti.

A Firenze era celebre il salotto della contessa d’Albany, il più prestigioso dopo quello della granduchessa Elisa Bonaparte. Ad esso si ispirarono diverse dame del capoluogo, di Pisa, Livorno, Pistoia. In questi club, ai riti della cortesia mondana si sovrappongono e si intrecciano gli accesi ideali del romanticismo europeo e del patriottismo risorgimentale. Intorno ai grandi personaggi “si aggiravano leggiadre fanciulle e graziose signore, e fra una discussione d’arte e una di politica si trovava il tempo di stringere un intrigo d’amore, di stendere la tela di un romanzo galante”. La contessa d’Albany, donna spregiudicata, già moglie del pretendente al trono d’Inghilterra Carlo Stuart, aveva vissuto con Vittorio Alfieri fino al 1803, anno della sua morte, e ora aveva un nuovo amore, il pittore di Montpellier François Xavier Fabre, che ritrae più di una volta lei e il suo entourage. Donna colta, estimatrice delle opere di Montaigne e di Shakespeare, aveva un grande temperamento. Legata a Mme de Stael dalla comune avversione per Bonaparte, era una convinta leopoldina, perché con l’avvento dei Lorena, e in particolare grazie a Pietro Leopoldo, la Toscana, dopo un lungo periodo di torpore, aveva cominciato a riprendersi anche dal punto di vista letterario. Era merito di Leopoldo e degli ideali risorgimentali se, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, la cultura toscana si era risvegliata profondamente. I confini toscani si erano così aperti alla diretta influenza della cultura d’oltralpe. Basti pensare al carattere innovatore dell’opera del ginevrino Giovan Pietro Vieusseux, che si era stabilito nel capoluogo toscano dopo un’intensa attività europea creandovi il Gabinetto omonimo. Esso in breve rappresentò un modello unico in quel periodo, poiché riuniva le personalità più vive della cultura contemporanea, da Gino Capponi a Raffaello Lambruschini, a Gabriele Pepe, a Niccolò Tommaseo. Inoltre il richiamo internazionale esercitato dal Vieusseux fece di Firenze un centro propulsivo di carattere europeo quando vi si insediarono colonie estere, specie anglosassoni, di cui la contessa Stolberg era la rappresentante più in vista. Nel suo salotto, con l’Alfieri, aveva dato vita a un centro di incontri e scambi tra insigni esponenti della cultura e della dissidenza politica. Lì la contessa faceva sentire le lettere di Madame de Stael, il giovane Lamartine leggeva i suoi primi versi, Chateaubriand i suoi Martiri, Canova meditava la scultura delle Grazie, Byron narrava le avventure dei suoi viaggi. (I parte)

Stampa questo articolo Stampa questo articolo