C’è un filosofo che ne ha fatto una corrente filosofica. È Immanuel Kant con il criticismo.

Certo qui non si parlerà del criticismo kantiano, ma della centralità che oggi, come e più di ieri, ha assunto il tema della critica in società. Kant potrebbe rappresentare semplicemente un faro per orientare e non scadere in pregiudizi o in giudizi fallaci e sbrigativi. Operazioni nelle quali si può essere soggetti attivi, in  qualità di attori che li formulano, o anche soggetti passivi,  cioè vittime.

La questione è oggi: quante volte accade che la critica si spinga oltre il recinto della  conoscenza? Quante volte, dentro le sue pieghe, si nascondono rabbia, pregiudizio e falsità ? Tante volte, troppe.

Partiamo da un assunto, lo stesso utilizzato da Kant: l’etimologia greca della parola  ci suggerisce di spiegarla come capacità di saper valutare , saper soppesare, saper giudicare. Il giudizio è, dunque, il risultato di un metodico lavoro di conoscenza e esperienza e è esprimibile circa qualsivoglia settore, che sia lavorativo o politico o artistico o afferente ai fatti di cronaca o ai rapporti interpersonali o a quant’altro cui dedichiamo reale e oggettiva attenzione.

Per Kant, insomma, conoscere è copulativamente giudicare.

Nella nostra Costituzione il diritto di critica  trova residenza nell’articolo 21, che recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ciò implica che qualsiasi cittadino  è legittimato a esprimere i propri giudizi su avvenimenti e fatti.

L’assunto serve per  capire cosa è il diritto di critica e perché oggi esso sia da esplorare sul piano sociale, dato che sembra sempre più il frutto di una conoscenza superficiale e inadeguata, che però a tanti offre la disinvoltura di indossare i panni  di esperti, di giudici e censori. Il risultato qual è? Avvelenare l’aria tutt’intorno, ingenerare il sospetto circa le competenze dei veri esperti, creare un clima di guerra di tutti contro tutti senza alcun senso del limite e del rispetto, distorcere la verità, offrire in pasto una errata percezione della realtà con tutte le conseguenze connesse e gli effetti nefasti.

Gli esiti di un deformato diritto di critica  sono quotidianamente sotto i nostri occhi, si pensi ai facinorosi della  “campagna no vax” o a come è stato trattato il tema della immigrazione comprensivo di ideologia xenofoba e razzista o ai terrapiattisti “in fisica” o agli “storici per caso”. Sotto la scure di questi ultimi,  tante  le “vittime”, a partire dalla disciplina storica in se.   Un esempio: “bella ciao” è stata tacciata di essere canzone comunista – e va aggiunto che l’aggettivo dai più è usato tout court in senso spregiativo – mettendo in mostra di ignorarne non solo l’ origine e il significato, ma anche il fatto che sia assurta a simbolo della Resistenza come testimonianza di lotta per la libertà contro il nazifascismo. La semplicistica “elaborazione” che se n’è fatta e l’infondatezza del significato attribuitole scredita finanche una grande conquista dell’età dell’Umanesimo quattrocentesco: la prospettiva storica. E si, perché insistere oggi sul comunismo con riferimento al quadro dell’Italia di allora mette in mostra ignoranza o malafede, dato che in realtà si usciva dal ventennio fascista e la lotta resistenziale è stata condotta innanzi da uomini e donne di diversa connotazione ideologica e ideale contro un nemico reale e comune: il nazifascismo.  Fatto sta che mentre in Italia ci si divide sulla canzone,  tra l’altro assai bella e vibrante, in Europa essa si intona per le strade e nelle piazze,  finanche è mixata dai dj al Tomorrowland di Bruxelles.

Ma continuiamo con gli esempi che in Italia sono “celebrati”  come diritto di critica, rivolgendo l’attenzione a quanti applicano continue generalizzazioni  alle  categorie professionali, a seguito di un fatto di cronaca che fa scalpore; sicché  la notizia della maestra violenta con i bambini o dell’infermiere violento con i pazienti, viene  trasformata in:  “maestre e infermieri tutti maneschi”. E il patatrac è fatto, generalizzazioni, clima del sospetto, giudizi perentori, sentenze sommarie che non corrispondono al vero irrorano l’aria di veleno e appannano un dato: le possibili responsabilità sono sempre individuali.

Pensiamoci, la superficiale declinazione avviene sempre per eccesso. A fronte della notizia negativa, parte una campagna denigratoria nei confronti delle categorie professionali.  Perché la maestra capace e brava non trova mai spazio? Perché non fa share parlare di misura, merito e sobrietà; nonostante esista, rispetto a quella particolare notizia di cronaca che fa scalpore, un mondo pulito di insegnanti, la maggioranza, i quali fanno giornalmente il proprio dovere. E questo è altrettanto vero per gli infermieri , per gli avvocati, per gli imprenditori e quanti appartengono alle rispettive categorie lavorative.

Viceversa, perché i magistrati che hanno perso la vita durante l’espletamento del loro lavoro, in cima ricordiamo Falcone e Borsellino a mo’ di esempio, non riescono a ingenerare il processo in senso virtuoso  a vantaggio della  categoria di appartenenza? Perché in certa opinione pubblica fa più breccia abbandonarsi al gusto della denigrazione del potere, in questo caso quello giudiziario, e farsi travolgere dall’istinto aggressivo cercando spasmodicamente  e colpendo duramente il “mostro” sbattuto in prima pagina,  invece che prestare attenzione ai buoni esempi, agli eroi, ai giusti. Insomma il “diritto di critica” sembra indirizzarsi non solo a generalizzazioni ma anche sempre verso un modello negativo, a quegli esempi negativi che offrono spazio alla soddisfazione dei propri impulsi repressi  e, al contempo, alla sublimazione dei propri difetti: il fango degli altri o sugli altri oblia le proprie miserie.

Fenomeno che, del resto, è sempre esistito, tanto che Voltaire ci ha scritto un trattato, quello sulla tolleranza, che ha preso non a caso avvio  dai coevi casi di cronaca giudiziaria proprio al fine di  stigmatizzare  il fanatismo e l’orgasmico attacco della “folla” contro il “mostro” di turno sbattuto in prima pagina sui giornali.

Decliniamo a oggi il fenomeno, ai tempi di fb e delle piazze virtuali, e capiamo qual è l’additivo che avvelena l’atmosfera, non a caso sempre più grave, greve e triste.

Va da se che questi atteggiamenti che non corrispondono esattamente al diritto di critica legalmente riconosciuto in Costituzione e neanche, gnoseologicamente, alla kantiana libera manifestazione di una opinione vera o quantomeno verosimile frutto di informazione, hanno ingenerato un circolo vizioso che rischia di continuare. Del resto  i media rincorrono certe notizie, riportandole, ribadendole, rimpallandole e ritrasmettendole a oltranza anche per ragioni commerciali legate all’indice di gradimento dei propri “consumatori-cannibali”, sicché costoro s’incuneano con certo grado di ossessività nella notizia,  nel mentre le piazze virtuali si gonfiano di “neuroni viscerali” che si materializzano in sentenze sommarie a oltranza, Bibbiano offre l’ennesimo esempio.

Per tutte le ragioni prima dette, se le critiche gratuite e non caratterizzate dal ricorso alla conoscenza dei fatti sono da stigmatizzare al pari delle generalizzazioni e se i “giudizi” che si traducono in ingiurie e in volgarità ridondanti su social rispondono neppure ai minimi canoni del buongusto e della pacifica convivenza civile,  ma sono espressioni di licenziosità e vero e proprio arbitrio, la politica neanche può però sentirsi “vittima” quando i giudizi sono informati e argomentati con urbanità. Accade che in nome della legittima difesa dalla critica cialtrona la classe politica depotenzi e tenti di annichilire quella costruttiva, concorrendo a aggravare il quadro generale, quello della semplificazione e delle generalizzazioni. Insomma la stessa classe politica sembra spesso non essere immune da certe “tentazioni”.

Eppure il diritto di critica è proprio il sale della democrazia e “ l’opinione pubblica è quella realtà che legittima governanti e sistemi di governo…”, affermazione, quest’ultima, prima che democratica in verità liberale, di John Locke.

Sicché il vero nodo da sciogliere e che da troppi anni appare inamidato  è il seguente: riabilitare agli occhi di tutti, ma proprio tutti,  cultura, studio e ricerca di una buona informazione, strumenti che educano a possedere davvero spirito critico e a esercitarlo secondo ragionevolezza e rispetto della legalità democratica, del criticismo kantiano, della buona educazione.  È solo così che il contraddittorio ha senso, è contributo valoriale e concreto, ha significato per la  crescita del Paese e è possibilità di smacco all’atmosfera di tristezza e al clima del sospetto che lo avvolge e lo travolge oltre i suoi reali problemi e le sue urticanti difficoltà. È così che il diritto di critica ha vero significato e si può darne giusto e propositivo riconoscimento; è evidente: i media devono assumersi la responsabilità sociale a informare in modo professionale;  il diritto di cronaca è del resto garantito in Costituzione e coabita con quello di critica nell’articolo 21. L’uso pubblico della ragione, tra l’altro,  val la pena aggiungere, è lezione sempre kantiana. Sui media e sui social

converrebbe che coloro che hanno visibilità, autorevolezza e responsabilità sappiano fare uso pubblico della ragione non cadendo in esternazioni e stereotipi qualunquisti, quanto ruffiani nella rincorsa al like o all’ audience , che ingenerano nei loro lettori  e ascoltatori la circolazione dei soliti “neuroni viscerali” che semplificano la percezione della realtà e contribuiscono al vizio capitale: rendere la realtà più brutta di quel che è.

Solo far risaltare che il giudizio è frutto di fatica e di impegno, oltre che di onestà intellettuale, può salvarci dall’attuale clima di odio e rimettere a posto i diritti democratici della libertà di pensiero, che deve essere esercitato dietro ricerca della conoscenza, e della libertà di parola, che  non equivale certo a sparare “parole in libertà”.

Il diritto di critica, dunque, è principio in parte da valorizzare e dall’altra da recuperare trasversalmente nel suo autentico significato in società  e va, inequivocabilmente, supportato dal diritto di cronaca esercitato da professionisti seri e preparati.

Certo se nelle Università nascono corsi per influencer la strada sembra essere  tutta in salita, ma a questo punto studiare il sofista Gorgia, che attraverso i suoi discorsi plasmava il suo pubblico a proprio piacimento,  potrebbe salvarci. Ecco la conoscenza è il comando morale per tutti, un imperativo categorico direbbe il nostro Kant, per essere capaci di sottrarci ai condizionamenti esterni e ai meccanismi di introiezione della propaganda e per preservare la vera libertà; l’individuale intelligenza; l’esercizio compiuto del diritto di critica; il clima di fiducia; il senso del rispetto per chi ne sa di più di noi, antidoti alla tristezza imperante e alla crisi della democrazia, oggi indagata non a caso anche come fenomeno sociologico.

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