Un servitor che ha le scarpe rotte, non può certo servir con diligenza, da Montagano, Napoli o Campobasso, non è per lui un puro spasso… sono gli unici versi ritrovati di un sonetto di don Achille Tagliaferri, il prete buono, per ricordare lo stato di evidente indigenza in cui versava Domenico Longano, per tutti, “Mincuccio Petruccio”, nato a Montagano l’8 luglio del 1848 da Pietro Longano e Francesca Di Lillo. Di precarissime condizioni economiche, analogo status d’altronde di gran parte della popolazione dell’Italia pre e post unitaria, visse, o meglio sopravvisse, rendendo servigi ai “galantuomini” montaganesi.

Orgoglioso e forte visse infatti, con l’esiguo compenso che si procurava percorrendo a piedi lunghi tragitti fino a Napoli, Campobasso ed altre innumerevoli località, come appunto messo o portalettere dei facoltosi signorotti locali.

Accanito bestemmiatore oltre che mordace cantore delle gesta e delle bravate dei signorotti del villaggio, ancora oggi è rimasto impresso soprattutto nella memoria dei più anziani, non tanto per le lunghe trecce bionde che portò in vita, considerate sicuramente, a cavallo tra ottocento e novecento, una anomalia se non addirittura una forma di devianza, quanto per la sua drammatica e violenta morte lucidamente programmata nei tempi e nel luogo.

Con disarmante determinazione Domenico Longano cessò di vivere il 17 aprile del 1915, dilaniato dall’esplosione di un ordigno artigianale premeditatamente stretto fra i denti.

La tragedia si consumò nell’androne del municipio di Montagano, luogo dove egli evidentemente senza abitazione si narra dimorasse.

Questa tragica “soluzione” che può sicuramente essere annoverata tra tutte quelle, contrassegnate da disperazione e rivolta, poste in essere dalla moltitudine di “miserabili” soprattutto meridionali, da coloro appunto che non avevano alcun diritto se non quello di sudditanza, dovette comunque provocare grande imbarazzo nel piccolo comune molisano e in particolar modo tra le autorità.

Questo mio convincimento è rafforzato dall’assenza di una particolareggiata registrazione tra gli atti comunali di allora, come invece avveniva di prassi per accadimenti di questo tipo.

Montagano, vede nella seconda metà del diciannovesimo secolo crescere la sua popolazione sino a circa quattromila unità per poi attestarsi agli inizi del novecento intorno ai 3100 abitanti, per la precisione 3107 nel 1911, quattro anni prima della morta del nostro. Solo nel 1887 era stato istituito il servizio di diligenza postale fra l’abitato e la stazione di Matrice-Montagano. Di qui evidentemente la necessità che qualcuno, come Domenico Longano, si prodigasse pur di sopravvivere nel ruolo di messo e portanotizie.

La scomparsa formale e fattiva del feudo consentì ad una borghesia rozza e taccagna di prosperare e formarsi sulle rovine di d’un solo feudatario, già potente accentratore della proprietà terriera. In ogni Comune quindi anche a Montagano, si videro emergere, quattro, cinque, sei famiglie borghesi che assunsero il ruolo di classe dirigente.

I galantuomini mandavano i figli a scuola e fornivano al Comune il medico, l’avvocato, il notaio, il farmacista il prete ed altre professioni e figure apicali, accentrando a proprio vantaggio l’amministrazione del Comune ed assorbendone le rendite.

Il popolo formato in larga misura di contadini, meglio dire braccianti e di artigiani, a causa del proprio stato di indigenza economica e del proprio analfabetismo si trovava interamente alla mercè della borghesia.

Solo qualche decennio più tardi un quarto stato si delineò nel ceto campagnuolo, una classe speciale, qualcosa di mezzo fra la borghesia e i contadini: la classe dei “massari”, caratteristica esclusiva delle provincie meridionali.

I massari, forti dei risparmi conseguiti con le nuove terre messe a coltura, si lanciavano nell’acquisto di terreni che i signorotti liquidavano per saldare antichi debiti.

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Era insomma la piccola proprietà sorta naturalmente dalle vicende storiche del feudo.

Domenico Longano, individuo senza alcuna importanza collettiva, non apparteneva a nessuna di queste classi. Era sostanzialmente un irregolare che con l’incedere degli anni e probabilmente di qualche malanno, non sopportando più la fatica derivante dai lunghi viaggi fatti a piedi potrebbe, come una sorta di reazione, aver deciso di porre fine alla propria esistenza. Naturalmente è solo una supposizione.

Di certo raccontare di esistenze faticose e soprattutto di morti volontarie è sempre triste e penoso comunque, anche per coloro che irriverenti verso tutto e tutti furono vittime ed eroi della propria folle e lucida determinazione.