“Vado a casa a piedi, mi piace camminare”. Chiara Izzi, una delle voci più belle della scena jazz newyorchese, finita l’intervista per Quarta Dimensione, si perde nel traffico di Campobasso all’ora di punta. Gente che esce dagli uffici, ragazzi che scappano al suono dell’ultima campana a scuola. Tornano tutti a casa, ad aspettarli c’è il pranzo di un giorno normale. Ad aspettare Chiara, invece, che tra qualche giorno torna in America, ci sono giorni speciali, quelli che da un po’ di tempo l’attendono nei club di New York (Blue Note, Birdland Jazz Club), oppure in quelli delle grandi metropoli come Washington o delle piccole città, dove si esibisce con un crescendo di successi proiettati sempre più in alto. La strada di Chiara invece è più lunga, va da Campobasso ad Harlem, dal Molise a New York, città dove vive e lavora ormai da cinque anni.

Cominciamo dall’inizio. Chiara Izzi nasce qui a Campobasso, in tutti i sensi. Quali sono stati i tuoi primi passi, come ti sei avvicinata alla musica?

Nasco come pianista classica e inizio a suonare il piano sin dalla prima adolescenza. Già cantavo in chiesa e nelle recite scolastiche ma il vero inizio è stato col piano. La molla che mi ha spinto da sempre, è stata la curiosità. Qualsiasi cosa mi chiedessero di cantare, anche in dialetto, la cantavo, senza pregiudizi. Amo le contaminazioni, è una mia caratteristica da sempre. Inizio quindi come pianista classica e studio con Paola Antinucci, una bravissima pianista e insegnante a cui devo molto. Poi ho interrotto gli studi per un paio di anni. Dovevo entrare in conservatorio ma l’idea del percorso academico mi spaventava. Poi però la musica è tornata. A convincermi è stato un professore, Donato Barone, per il quale ho cantato in latino, un chitarrista che mi ha suggerito di iscrivermi alla scuola “Thelonious Monk” di Campobasso, guidata tutt’ora da Gianclaudio Piedimonte. Da lì ho iniziato il mio percorso artistico legato al canto. Io venivo dalla musica classica e dal Pop, di Jazz non sapevo assolutamente nulla.

Come è stato l’impatto col Jazz?

Destabilizzante. Soprattutto quando sei del tutto impreparato. Un fulmine a ciel sereno. Per me è stato un momento di crisi. Mi fecero ascoltare Charlie Parker e il suo sassofono mi disturbava. Mi dicevo: “Io questo non riesco proprio a capirlo”. Però è stato in quel momento che è iniziata una specie di sfida. Una sfida sana. Insieme al canto ho iniziato ha studiare piano jazz con il grande musicista e maestro Marco Mancini, cosa che mi ha molto aiutato per gli arrangiamenti e la composizione. Mi immergo totalmente nel Be Bop e nell’ascolto di Charlie Parker, uno dei fondatori del genere, e di altri musicisti. Comincio quindi a sperimentare, a usare lo “scat” (virtuosismo canoro che imita il suono di uno strumento Ndr.). Cantavo in continuazione, a scuola e fuori, per provare a me stessa che potevo cantare quelle cose. Poi ho scoperto Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Anita O’Day senza dimenticare cantanti italiane, tra cui Diana Torto, mia insegnante. Con lei, soprattutto, mi sono dedicata allo studio dell’improvvisazione; poi l’ho avuta come insegnante al Conservatorio di Frosinone.

Hai quindi cambiato idea sugli studi accademici?

Sì. Mi sono laureata in scienze della comunicazione. Mentre studiavo e davo gli esami, ho fatto tanta gavetta con i musicisti e insegnanti della scuola a cui sono tanto grata e che voglio citare: Nicola Cordisco, Nicola Corso, Marco Mancini, Donato Cimaglia, Luciano Carrieri, Luca Di Muzio, Vincenzo Limongi, Giulia Maselli, Patty Lomuscio, Antonio Salvador Conte. Cantavo ogni volta che ci fosse la possibilità di farlo. Ho fatto tantissima gavetta, sia in Molise che nel sud Italia. Considero una fortuna essere nata in Molise. In un posto così piccolo allora ero forse l’unica cantante jazz e quindi mi chiamavano spesso. Questo mi ha portato a bruciare le tappe, ero l’unica, o una delle poche. In una grande città non lo avrei potuto fare.

Qual è stato il passo successivo?

Finita l’università vado a Roma. Qui arriva la decisione importante: decido che la musica è la mia strada e quindi di fare un master. Mi iscrivo al conservatorio di Frosinone dove insegna la mia storica insegnante, Diana Torto. In due anni prendo il master in Jazz. Nel frattempo ho continuato ad esibirmi. Nel periodo romano inizio anche a fare qualche concorso nazionale. Vinco il “Lucca Jazz Donna”, vengo premiata al “Chicco Bettinardi” e al “Barga Jazz” e quindi decido di tentare il grande passo. Partecipo al prestigioso concorso vocale indetto dal Montreux Jazz Festival, e qui viene la vera svolta, perché lo vinco. Il presidente della giuria era Quincy Jones e l’incontro con lui mi ha fatto pensare in grande. Grazie al premio ho la possibilità di registrare il mio primo disco (Motifs), poi l’anno dopo mi esibisco nuovamente a Montreux e apro il concerto di Paco De Lucía. Qui cambia la mia vita artistica e decido di andare a New York.

A New York come arrivi, hai qualche contatto, un aggancio?

Avevo un aggancio, conosciuto grazie alla scuola Thelonious Monk: Luca Santaniello, un affermato batterista molisano che era già a New York da oltre quindici anni. Una specie di “zio d’America”. L’ho conosciuto in Italia e mi ha spesso detto di tentare la strada di New York. Quindi parto, con un visto turistico di tre mesi. Un viaggio di perlustrazione che presto si trasforma in altro. New York mi piace, ottengo il primo visto e mi trasferisco ad agosto 2014. Succede che dalla terza settimana inizio a lavorare e mi mantengo grazie alla musica. Una cosa che non è assolutamente scontata. Sono stata fortunata perché ho incontrato subito i musicisti giusti ed ho iniziato presto a cantare nei club.

Agli inizi qual è stato il tuo repertorio? Classici, standard, oppure hai osato qualcosa di più?

All’inizio non ho osato molto, perché avevo anche una sorta di soggezione dovuta anche alla lingua e al fatto che stessi cantando la loro musica. All’inizio quindi mi sono cimentata con il songbook americano e gli standard di Cole Porter, Gershwin e poi piano piano ho allargato il mio repertorio. Ho iniziato a cantare anche in francese, perché nella mia prima band c’era un chitarrista francese ed eseguivamo brani quali “La Vie en Rose” e classici di Charles Trenet. Fin dai miei esordi italiani e poi newyorchesi ho sempre amato cantare anche in diverse lingue, tra cui il portoghese e lo spagnolo. Il multiculturalismo è un tratto distintivo della mia identità artistica. Insomma, gli esordi a New York sono stati questi e alcuni mesi dopo che ero lì, arriva il primo ingaggio importante al prestigioso Iridium Jazz Club.

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Al tuo percorso concertistico segue poi anche una produzione discografica

Dopo l’esperienza di Montreux è nato il mio primo disco, “Motifs” del 2013. Nel 2019, frutto dell’esperienza newyorchese è uscito un nuovo album, “Across The Sea”, che è anche il titolo di un mio brano. Questo lavoro è un po’ la sintesi di tutto quello che ho fatto a New York e l’ho realizzato insieme al pianista e mio mentore Kevin Hays, musicista di grande spessore che vanta collaborazioni con artisti del calibro di Steve Gadd e James Taylor. Ho poi cantato anche in dischi di altri, cimentandomi in progetti di vario tipo. Ad esempio in un lavoro del 2006 (Blend Project), insieme ad altri abbiamo reinterpretato in chiave jazz canzoni della tradizione popolare molisana. Ripeto: mi piace molto l’idea della contaminazione. Una cosa che faccio sempre è quella di mettere un po’ delle mie radici nelle mie interpretazioni. Compongo ad esempio i miei testi in inglese e ci metto dentro qualcosa del mio mondo di provenienza, non necessariamente il dialetto. Questa cosa me l’ha insegnata New York. Tutti i grandi musicisti a New York lo fanno. L’unicità che puoi raggiungere non esula da quello che sei e da dove vieni. La tua origine non va rinnegata ma devi onorarla. I grandi musicisti americani onorano sempre le proprie radici.

Parlando di radici, a novembre sei stata tra gli ospiti del Niaf, l’appuntamento annuale degli italiani – americani.

Una grande e bella esperienza perché quest’anno ospite d’onore della manifestazione è stato il Molise. Dal mio agente ho saputo che qualcuno aveva fatto il mio nome per il gran Galà in onore del Molise. Ho accettato immediatamente. Prima di questo appuntamento, a maggio, ero stata al Kennedy Center e lì qualcuno mi aveva ascoltata, aprendo così la strada per la mia presenza al Niaf.

Quali sono in questo momento i tuoi interessi, i tuoi orizzonti, i tuoi progetti futuri?

Ho da poco pubblicato un disco, “Across the Sea”. Il primo album, “Motifs” è stato pubblicato prima del mio arrivo a New York quando il mio lavoro sulla voce era improntato molto sull’ improvvisazione. New York, invece, mi ha cambiato le prospettive. Ho iniziato a lavorare sulla ricerca di un nuovo suono e, soprattutto, sul lavoro ai testi delle canzoni, focalizzandomi maggiormente sullo storytelling.

L’arte di raccontare storie è un tratto comune a molte discipline artistiche in America. Penso alla letteratura, alla fotografia, oltre che chiaramente alla canzone.

Si. Arrivando a New York è come se questa cosa mi fosse stata suggerita. Uno storytellig autentico è quello che resta nel tempo, anche oltre i virtuosismi.

Cosa ti colpisce, da dove nascono le storie che racconti nelle tue canzoni?

Storie soprattutto intrise di malinconia. Lo stesso fatto di vivere molto lontana da casa, già questo mi predispone a raccontare storie cariche di nostalgia, di fragilità. Anche il mio interesse per la musica brasiliana, nasce da questa caratteristica. La musica brasiliana è molto legata alla nostalgia, a quella che loro chiamano “saudade”. La nostalgia ricorre con frequenza nelle mie canzoni. Non a caso il pezzo dal quale trae il titolo il mio nuovo album si chiama “Across the Sea”, oltre il mare. Si tratta di un omaggio alla mia famiglia e alla distanza che ci separa. Il bisogno di raccontare è una sorta di terapia, di cura.

Come componi, da dove cominci quando scrivi un pezzo?

Di solito scrivo prima la musica, mi siedo al piano e compongo. Però non sempre è così. A volte vengono prima le parole e poi al piano costruisco una melodia.

Scrivi in inglese i tuoi testi o in italiano?

Scrivo in inglese. Trovo più difficile scrivere in italiano, perché mi sforzo di più e ho paura di scrivere cose banali. In inglese non c’è invece quel filtro di giudizio, non mi giudico eccessivamente, pur essendo molto autocritica. Voglio però lavorare con entrambe le lingue, come del resto già faccio nei miei dischi. Non scrivo ma interpreto solo in lingua portoghese, omaggiando illustri compositori e poeti brasiliani quali Tom Jobim, Vinicius de Moraes, Baden Powell, Chico Buarque, etc.. Mi piace molto prendere dei testi di canzoni nella loro lingua originaria e riproporli tradotti o rivisitati in una delle lingue attraverso cui riesco meglio a raccontare storie. Un esempio in Italia in questo senso è stato quello di Ornella Vanoni, che si è cimentata con l’interpretazione in italiano di alcuni classici del repertorio brasiliano rendendolo così più conosciuto al pubblico italiano. Mi piace anche attingere da musica solo strumentale. Mi spiego. C’è un brano di Gabriel Fauré, “Pavane”, un pezzo di musica classica che ho arrangiato in chiave jazz e a cui ho aggiunto un testo in inglese. Ho re-intitolato il brano “Pavane for Peaceful Times”, perché la melodia mi ha ispirato un testo che parlasse di pace e di come provare a costruire nella nostra quotidianità rapporti di maggiore gentilezza e compassione tra le persone.

Parliamo delle tue prossime esibizioni.

Si, anche perché c’è un nuovo disco in uscita nel 2020. Uscirà in primavera per la mia etichetta americana, la Dot Time Records di New York. Sarà un disco live ed è la prima volta che pubblico un disco dal vivo. È stato registrato lo scorso anno a Brema insieme al pianista italiano e fidato collaboratore da diversi anni Andrea Rea. Si tratta di un paio di brani originali e re-interpretazioni di brani già esistenti riproposti per la gran parte in italiano e spagnolo. Contemporaneamente all’uscita del disco continueranno le esibizioni. A febbraio sarò per una decina di date in Svizzera insieme ad una band nella quale c’è Rosario Bonaccorso, un contrabbassista jazz italiano molto bravo e noto. Poi torno in America per altre date con il chitarrista brasiliano Diego Figueiredo e Ken Peplowski, un affermato clarinettista americano che ha lavorato con Benny Goodman ed è considerato un maestro mondiale del suo strumento. Farò quindi un paio di date in California e ad aprile una data in un club molto importante a Washington, il “Blues Alley”, un posto dove si è esibita anche Eva Cassidy, una voce e una musicista straordinaria, andata via troppo presto.

C’è un altro progetto speciale. Un progetto che ti vedrà protagonista con un tuo concerto nella tua terra, in Molise.

Sono felicissima di questa proposta e di questa data che ci sarà tra la prossima estate e l’autunno. Per me è un motivo di grande orgoglio tornare qui con un mio progetto e condividerlo con gente della mia terra. Se si crede in se stessi si può pensare in grande, anche in una piccola terra. In questo senso vorrei dare un messaggio di fiducia, soprattutto ai giovani. Se si hanno dei desideri, bisogna seguirli.

C’è molto interesse sul Molise, soprattutto a livello internazionale. Il Molise è tra le 52 mete turistiche segnalate dal New York Times per il 2020.

Io porto il Molise ovunque vada. Con me c’è un pezzo di Molise in America. Al Molise devo molto, sia sotto il profilo umano che musicale. Nel mio repertorio ho inserito un brano molisano, si chiama “Terra Nostra”, composto nella musica da Guido Messore, uno storico insegnante del Conservatorio di Campobasso. Il brano è in dialetto molisano, con il testo di Emilio Spensieri, e descrive la bellezza geografica del Molise e le sue potenzialità, ma parla anche dei giovani, di “giuvenezza ardita” per la precisione. Ogni volta che canto quel pezzo mi viene la pelle d’oca, perché è uno sprono, un invito ai giovani a pensare in grande. Lo canto per dare forza agli altri. In fondo è per questo che canto, per gli altri, non solo per me. Penso che nel mio piccolo, con la mia arte, io posso comunicare speranza.

Per te cantare, cosa significa?

Nel cantare c’è una dimensione se non religiosa sicuramente spirituale, intima, con lo strumento, con i musicisti e con chi ti sta ascoltando. Non fa differenza se davanti hai una o mille persone, bisogna sempre darsi al cento per cento. Facendo jazz, attraverso il jazz ho la possibilità straordinaria di essere totalmente me stessa e di sfamare la mia irrefrenabile curiosità. La musica e il canto sono una preghiera.

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